È sempre affascinante ricevere nella propria lingua i testi di un autore classico “ritrovato” dopo anni di silenzio. Per quanto li si possa leggere in originale, l’atto della traduzione conferisce una familiarità alle parole che aiuta a comprendere meglio e, forse, a fissare più efficacemente concetti e tematiche. Un purista cinico potrebbe controbattere che ogni traduzione è un tradimento e che è sempre preferibile la pagina incorrotta dell’inglese a quella adulterata dell’italiano.
Sia come sia, la lettura dei tanti saggi di Edwin Lemert (1912-1996), vero e proprio moloch della sociologia della devianza mondiale, contenuti nell’antologia curata da Cirus Rinaldi ed Enrico Petrilli per PM Edizioni (2021) con il titolo Sociologia del male e altri scritti, ci offre un panorama a tutto tondo dell’opera del grande sociologo americano, consentendo una immersione totale nei temi più noti del suo lavoro: dagli attacchi alle analisi bio-medico-positivistiche della criminalità, alla scoperta dei processi simbolici e delle reazioni sociali che presiedono alla genesi della devianza; dalla enucleazione dei due concetti più celebri di Lemert – deviazione primaria e deviazione secondaria – alla critica delle teorie eziologiche del delitto.
L’antologia, però, propone anche un Lemert meno noto: quello che si occupa di esplorare il tema dei disturbi mentali in un’area rurale problematica, ad esempio, o quello che si dedica ad interpretare sociologicamente un disturbo, apparentemente solo individuale e soggettivo, come la balbuzie, non disdegnando incursioni nell’antropologia e nell’etnologia.
Uno spazio importante è destinato anche al Lemert che studia gli archivi dei tribunali per minorenni e la genesi di questi ultimi, con una interessante escursione nelle modalità di intervento della giustizia minorile in Italia.
L’ultima sezione è dedicata a uno dei libri più stimolanti del sociologo americano: il postumo The trouble with evil che pretende di impostare nientedimeno che una riflessione sociologica sull’antica questione del male, riservata di solito a teologi, moralisti e filosofi. Non è un caso che quest’ultima sezione dia il titolo all’antologia. “Sociologia del male” è una formula allettante, che pungola la curiosità anche del più smaliziato cultore del sapere sociologico.
Ho contribuito all’antologia, traducendo un saggio molto interessante di Lemert, dal titolo Instead of court. Il testo intende riflettere sulle alternative alle sanzioni istituzionali inflitte ai juvenile delinquents nell’intento di sottrarli a processi di stigmatizzazione che potrebbero incidere significativamente sull’evoluzione in senso criminale delle loro biografie. Per Lemert, l’unica filosofia ammissibile nei tribunali per minorenni deve essere il non intervento; tema, questo, profondamente attuale in un’epoca in cui la questione delle baby gang, ad esempio, sembra inasprire i sentimenti punitivi nei confronti dei minorenni che delinquono.
Concludo con un brano significativo di Instead of court che invito a leggere insieme a tutti i saggi contenuti in Sociologia del male.
La stigmatizzazione è un processo che assegna marchi di inferiorità morale ai devianti; detto più semplicemente, è una forma di degradazione che trasforma identità e status sociali in senso deteriore. È presente nei procedimenti formali del tribunale in maniera sia implicita sia esplicita. I colloqui di primo ingresso, e quelli che hanno luogo in fasi successive delle indagini, hanno spesso carattere inquisitorio e mirano a ottenere ammissioni di colpa o di complicità necessarie per soddisfare i requisiti legali previsti per l’inoltro di istanze o a ottenere prove in altri casi. Detenzione significa perdita della libertà, privazione di oggetti personali, assoggettamento a norme di sicurezza arbitrarie e, in alcuni centri per minori, sorveglianza tramite microfoni e telecamere a circuito chiuso. Prima di essere condotte in detenzione, le ragazze possono essere sottoposte a esami ginecologici di routine, nel sospetto che possano essere incinte o affette da una malattia venerea.
Le udienze del tribunale somigliano, in molti casi, a rituali di degradazione in cui gli ufficiali giudiziari elencano in dettaglio i difetti morali o l’“inidoneità” dei minori e dei loro genitori. A tali giudizi contribuiscono le testimonianze ostili di altri individui e i giudici spesso pronunciano lunghi predicozzi, infarciti di minacce, che pongono minori e genitori di fronte alla scelta tra ravvedimento e alternative spaventose. Per dare una idea di ciò, è noto che i giudici leggono fatti o opinioni incriminanti dai registri di probation.
Questi attentati drammatizzati all’identità e all’integrità della persona hanno un impatto devastante su alcuni, mentre sono rapidamente assorbiti o ignorati da altri. Meno facili da fronteggiare sono le conseguenze oggettive della stigmatizzazione che scaturiscono dalla creazione di una documentazione ufficiale presso il tribunale o la polizia. Sebbene non sia disponibile al pubblico, il contenuto di questa documentazione diventa noto all’esterno. Ciò può costituire, come spesso avviene, un serio ostacolo al tentativo di ottenere un certo tipo di occupazione, di acquisire una istruzione professionale o di arruolarsi nelle forze armate. Un problema paradossale, particolarmente rilevante ai fini della nostra discussione, è che, una volta che un minore viene giudicato da un tribunale, molte agenzie assistenziali non lo accolgono più come loro cliente. Di conseguenza, egli perde la possibilità che i suoi problemi siano trattati come problemi di natura sociale.