Nella frenesia onomatopoietica che caratterizza i nostri tempi e che spinge a coniare etichette per qualsiasi condizione umorale ci affligga, per quanto effimera, non poteva mancare la “sindrome del Grinch” (dal nome del personaggio verde e dispettoso dei fumetti e dell’omonimo film che odia il Natale e che fa di tutto per sabotarlo), a indicare quel complesso di malinconia, noia, fastidio, tristezza e irritazione che colpisce molte persone in occasione di festività periodiche e istituzionali come il Natale.
Gli psicologi, sempre entusiasti di apportare il loro contributo decisivo a “disagi” che essi stessi creano costruendo categorie nosologiche colme di sintomi dal suono preoccupante, imputano tale sindrome al contrasto tra i pervasivi e ripetuti messaggi di felicità e di armonia che riceviamo nel periodo di Natale (“A Natale siamo tutti più buoni!”) e lo stato d’animo negativo che avvertiamo a causa di situazioni di malessere che possono riguardare la fine di una relazione sentimentale, una difficoltà economica a seguito di un licenziamento, la morte di una persona cara, l’ansia per un futuro incerto. Si tratterebbe di situazioni vissute come un’ingiustizia, che scatenerebbero sensazioni di insofferenza nei confronti di chi non è afflitto dagli stessi problemi. Sarebbe, dunque, il contrasto tra come ci sentiamo e come la società richiede che ci dovremmo sentire a provocare la sindrome del Grinch. Se non vivessimo fasi di vita negative – sembra di capire – ci sentiremmo tutti felici in linea con i diktat del periodo in questione.
Sebbene tale spiegazione sia plausibile, credo non sia l’unica possibile. Per quanto mi riguarda, l’avversione che provo nei confronti del Natale è una forma di reattanza a uno stato d’animo non spontaneo che viene imposto massicciamente dall’esterno per ragioni consumistico-religiose, indipendentemente da eventuali situazioni di sofferenza sentimentale, lavorativa o esistenziale. In altre parole, non è necessario essere infelici per sentirsi come un Grinch.
È stato lo psicologo Jack Brehm ad elaborare il concetto di reattanza psicologica per spiegare la risposta degli esseri umani alla perdita della libertà d’azione. La maggior parte dei nostri atteggiamenti è eminentemente stabile, a dispetto degli sforzi di persuasione impiegati per modificarli. Quando una persona sente che la sua capacità di scelta è minacciata, è sottoposta a una motivazione di reattanza, motivazione che tende a ristabilire la sua libertà di scelta. Così, il Natale, imponendo un sentimento prevalente, può innescare in noi il desiderio del sentimento opposto o, comunque, di altri modi di sentire. Il bisogno di mantenere la propria libertà di scelta spinge ad apprezzare stati d’animo che abitualmente non hanno particolare salienza. Come censurare un film ha spesso l’effetto di aumentare il desiderio di vederlo, così censurare le alternative umorali o sentimentali che non coincidono con la gioia e la felicità accresce il desiderio di avversione al Natale.
La tristezza, l’irritazione e la rabbia che proviamo a Natale potrebbero essere, dunque, una modalità di esprimere il nostro desiderio di libertà in un periodo che vorrebbe imporci un modo di sentire unico. Il Grinch in ognuno di noi potrebbe essere solo un individuo che desidera sentirsi libero di sentirsi come gli pare, indipendentemente da perdite del lavoro, mogli o mariti traditori e parenti defunti.
Smettere di augurare “buone feste” non sarebbe, allora, un atto di scortesia causato da un disagio momentaneo, ma il tentativo di riappropriarsi di una sensazione di libertà in un mondo che, per qualche settimana, vorrebbe rinchiuderci tra mura psicologiche insormontabili.