Sembra che uno degli effetti del coronavirus sia quello di far svuotare le carceri. Ciò emerge da una nota del DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) del 6 aprile scorso che ha comunicato una riduzione del numero di detenuti presenti nelle carceri italiane da 61.230 (al 29 febbraio) a 57.137 (i posti da regolamento sono comunque 50.931: le carceri rimangono in sovraffollamento).
Si potrebbe pensare ingenuamente che ciò sia dovuto a un calo dei reati, ma questa è solo una delle ragioni. Se, infatti, è vero che sono diminuiti bruscamente gli arresti in flagranza, la riduzione del numero dei detenuti è avvenuta anche per l’applicazione dell’art. 123 del Decreto-legge 18 del 17 marzo 2020, che favorisce la detenzione domiciliare per i detenuti che non debbano scontare più di 18 mesi di detenzione e che non rientrino in determinate categorie di prigionieri, e della Legge 199 del 26 novembre 2010, che già si esprimeva in tal senso.
Hanno pesato anche il maggior ricorso ai permessi per i semiliberi, che pure è una misura che favorisce la domiciliarità della pena, e motivi sanitari dovuti al contagio da coronavirus o a situazioni di incompatibilità con lo stato di salute del detenuto.
Al 6 aprile risultano, infine, 37 i detenuti affetti da coronavirus e 158 i risultati positivi al tampone tra le 38 mila unità di Polizia.
La tanto temuta epidemia carceraria non si è, dunque, al momento, verificata, a dispetto delle preoccupazioni dei giorni iniziali del virus.
Molti paragonano la quarantena che stiamo vivendo in questi giorni alla detenzione domiciliare. Si tratta naturalmente di un’iperbole senza alcun fondamento. Pochi, però, da questa esperienza ricavano riflessioni sulla condizione dei detenuti. A dispetto del luogo comune secondo cui chi è in carcere “fa una bella vita” e “ha perfino la televisione a colori”, la privazione della libertà costituisce, di per sé, una pena tremenda in grado di incidere non solo sul fisico, ma anche sulla mente di chi vi è sottoposto. Del resto, basti pensare che intere guerre e rivoluzioni sono state condotte in nome della libertà. La vita in carcere significa anche divieti (non si possono avere soldi a piacimento, chiavi, smartphone a tablet), limitazioni (come quelle che riguardano il numero di metri quadri a disposizione in cella), sovraffollamento, malattia (“in gabbia” non si sta bene affatto), gesti auto-lesionistici.
Insomma, il carcere non è come la quarantena; la quarantena non è come il carcere. Per farvene un’idea provate a parlare con chi è stato in prigione, anche solo per pochi giorni, per un errore giudiziario. Le conseguenze sono tremende; gli effetti devastanti. Niente a che fare con i giorni che stiamo vivendo oggi.
Per il mito dell’“Hanno pure la televisione a colori” e altri riguardanti il carcere, rimando al mio 101 falsi miti sulla criminalità, edito da Stampa Alternativa.