Nel 1954 gli psicologi Albert Hastorf e Hadley Cantril pubblicarono sulla rivista Journal of Abnormal and Social Psychology un articolo unico nel suo genere intitolato They Saw a Game: A Case Study. I due esaminarono gli esiti di un incontro di football tra le squadre dei Dartmouth Indians e dei Princeton Tigers avvenuto nell’ultima giornata del campionato del 1951. La partita fu vinta da Princeton, la squadra che aveva vinto tutte le gare precedenti e che conquistò anche il campionato. Si trattò di una partita spigolosa, in cui furono fischiati molti falli. La stella dei Princeton dovette abbandonare il campo nel secondo quarto di gioco a causa di un naso rotto. Nel terzo quarto, anche un giocatore dei Dartmouth dovette gettare la spugna a causa di un serio infortunio alla gamba. Al termine dell’incontro, tifosi e giornali delle due squadre si scatenarono, accusandosi reciprocamente di scorrettezze e irregolarità.
Una settimana dopo l’incontro, Hastorf e Cantril chiesero ad alcuni studenti di psicologia di Dartmouth e Princeton di rispondere alle domande di un questionario teso a valutare il tipo di reazioni stimolato dalla partita. Mostrarono inoltre il filmato dell’incontro ad altri gruppi di studenti di Dartmouth e Princeton, chiedendo loro di registrare il numero di infrazioni a cui avevano assistito e di valutarle “blande” o “gravi”.
Le risposte fornite dagli studenti di Dartmouth e Princeton furono discrepanti. Sebbene quasi nessuno avesse attribuito a Princeton di aver dato inizio al gioco pesante, il 36% degli studenti di Dartmouth e l’86% di quelli di Princeton affermarono che la responsabilità iniziale della violenza dell’incontro fosse di Dartmouth; il 53% degli studenti di Dartmouth e l’11% di quelli di Princeton dichiararono che la responsabilità fosse da condividere.
In reazione alla visione del filmato, gli studenti di Princeton “videro” i giocatori di Dartmouth compiere più del doppio di infrazioni di quelli di Dartmouth. Commentando i risultati dell’indagine, Hatorf e Cantril conclusero che: «In sostanza, i dati indicano che non si può parlare di una “partita” che ha luogo “nella realtà” per conto suo e che le persone semplicemente “osservano”. La partita “ha luogo” per una persona che ne fa esperienza solo nella misura in cui certi accadimenti hanno per lui dei significati in termini di scopo». In altre parole, una partita è un evento che viene riempito di significati dall’insieme di appartenenze, fedeltà, aspettative e credenze che ogni spettatore ha. Ogni spettatore costruisce la partita secondo modalità proprie che ne orientano percezione e valutazione. Non esistono due partite uguali. Ogni partita è un evento complesso che viene decodificato e interpretato da ogni spettatore. I tifosi di squadre avversarie semplicemente vedono due partite diverse.
All’indomani delle polemiche di Juventus-Roma di domenica scorsa, queste osservazioni mi sembrano più che mai pertinenti. È incredibile come esperti, studiosi, commentatori dimentichino questo dato ormai consolidato della ricerca psicologica. I tifosi di Juve e Roma semplicemente hanno visto due partite diverse, giungendo a conclusioni diverse e attivando copioni esperienziali diversi (“ladri” vs. “piagnoni”). Non esiste una verità data una volta per tutte e nemmeno la tecnologia può aiutare più di tanto, soprattutto di fronte a situazioni ambigue, come un rigore concesso per un centimetro in meno o in più o un intervento in area di rigore “indiscutibilmente” falloso per una parte, “indiscutibilmente” veniale per l’altra. Il guaio è quando un’interpretazione (necessariamente) di parte viene abbracciata da giornalisti, esperti e commentatori come “la” interpretazione “vera”. A questo punto, una percezione selettiva diviene percezione assoluta, un giudizio “costruito” diviene un giudizio “reale”. Nel frattempo le logiche dei tifosi si consolidano (l’ennesimo “furto” per un tifoso è l’ennesimo piagnisteo per l’altro) e gli animi si avvelenano.
Sarebbe sicuramente di utilità assumere e diffondere un’ottica relativistica che renda i tifosi consapevoli del modo profondamente peculiare in cui gli spettatori sportivi vedono le partite. Imparare a mettersi nei panni degli altri, come si suol dire. Però, ho l’impressione che si preferisca gridare e accusare l’altro. Così “ci si sfoga” e si torna a lavorare pronti ad obbedire al padrone di turno.
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Grazie a lei dottore di considerarli tali.
Potremmo dottore espandere tali concetti anche alle visioni politiche? Mi pare che, almeno in parte, queste ricalchino i fenomeni attinenti al tifo: nascita e consolidamento in un contesto che fornisce concezioni pre-analitiche (o reazione paradossa a tali idee e aderenza a quelle antitetiche), interpretazione diversa di atti e frasi se provenienti dalla propria parte o da quella avversa, senso di forte appartenenza (forse più una volta) e disgusto verso il “nemico”. Forse é quanto di più umano ci sia ed é favorito dal fatto che la complessità della realtà, con tutte le sue retroazioni, ci impongono di fare scelte a priori cui cerchiamo di adattare i successivi accadimenti. Sarebbe troppo doloroso e umanamente impossibile doversi rimettere ogni volta in discussione. Non voglio naturalmente operare una relativizzazione assoluta che appiana i pesi etici delle diverse posizioni: i valori prioristici sono anche legati a maggior o minore eguaglianza/giustizia sociale tollerate. Che ne dice? Cari saluti.
Sono pienamente d’accordo con lei, anche se oggi le visioni “da tifo” della politica sono state sostituite da adesioni dettate dall’interesse immediato e di più corto respiro. Grazie, come sempre, per i suoi commenti acuti.