Nel mio libro Bizzarre illusioni, dedicato al fenomeno della pareidolia, ho destinato un intero capitolo alla pareidolia acustica, un fenomeno che ritengo incredibilmente affascinante. Pareidolia acustica significa che, in determinate circostanze, la mente umana tende a identificare in rumori privi di senso, modelli definiti di significato. Proprio come accade nella percezione visiva, sono le conoscenze possedute, le competenze linguistiche, le aspettative, i desideri, i sistemi di credenze e un po’ di fantasia a tradurre vibrazioni, rumori, cacofonie apparentemente insignificanti in messaggi vocali, brani di lingue o comunicazioni dall’aldilà.
Un esempio incantevole di pareidolia acustica è rinvenibile nel famoso racconto di Edgar Allan Poe, Gli assassinii della Rue Morgue (1841), considerato il capostipite dei racconti polizieschi. Ricordiamo brevemente la trama. A Parigi viene commesso un duplice efferato delitto. Madame L’Espanaye e sua figlia Camille sono ritrovate assassinate nel loro appartamento in maniera brutale (il corpo di Camille è stato addirittura infilato nel camino!) e inesplicabile: tutti i loro averi sono ancora nell’abitazione e nessuno ha idea di chi possa essere stato a macchiarsi di un omicidio così barbaro e perché. A risolvere il caso è chiamato Auguste Dupin che, mettendo in azione le sue facoltà raziocinanti, riuscirà infine a trovare il colpevole: un ineffabile orangutan sfuggito al suo padrone.
A metà della storia sono presentate le deposizioni di alcuni testimoni. Alcuni di essi riferiscono di aver udito due voci dialogare tra loro: una rude, sicuramente di un francese; l’altra “molto più acuta, di un timbro singolarissimo”. Mentre i testimoni convergono tutti nell’identificare la prima voce e attribuirla a un francese, la seconda voce suscita le opinioni più contrastanti. Secondo Isidoro Muset, «la voce acuta era di uno straniero. Non poteva dire se era d’uomo o di donna. Non ha potuto capir nulla di quel che diceva, ma gli pareva che fosse spagnolo» (Poe, E.A., 1841, “Gli assassinii della Rue Morgue”, in Lippi, G. (a cura di), 1989, 150 anni in giallo, Mondadori, Milano, p. 21). Secondo un altro testimone, Enrico Duval, «la voce acuta era quella di un italiano, Era certo che non era francese. Non poteva esser sicuro che fosse voce di uomo. Poteva essere anche voce di donna. Il teste non conosce la lingua italiana. Non ha potuto distinguer le parole ma dall’intonazione è convinto che la voce fosse di un italiano» (Ivi, pp. 21-22). Odenheimer, un testimone olandese che non parla francese, «è sicuro che la voce acuta fosse maschile, e di un francese. Non ha potuto distinguere le parole. Erano alte e rapide, inuguali, esprimevano tanto la paura quanto la collera. La voce era aspra; più aspra che acuta. Non può dire che fosse una voce acuta» (Ivi, p. 22). William Bird, inglese, depone invece che «la voce acuta era altissima; più alta della rude. È sicuro che non era la voce di un inglese. Gli parve la voce di un tedesco Forse una voce di donna. Il teste non conosce il tedesco» (Ivi, p. 23). Lo spagnolo Alfonso Garcio riferisce che la voce «acuta era di un inglese; di questo è sicuro. Non conosce l’inglese ma giudica dall’intonazione» (Ivi, p. 24). Infine, Alberto Montani «non ha potuto capire le parole della voce acuta. Parlava rapidamente e a scatti. Crede che sia la voce di un russo. Conferma le testimonianze precedenti. Lui è nato in Italia. Non ha mai parlato con un russo» (Ibidem).
A un certo punto, Dupin prova a ricapitolare la situazione:
Tutti i testi, come avete rilevato, erano d’accordo sulla voce grossa. Ma a riguardo della voce acuta, la cosa singolare consiste non già nel loro disaccordo, ma nel fatto che nel provarsi a descriverla, un italiano, un inglese, uno spagnolo, un olandese, ne parlano come della voce di uno straniero. Ognuno di loro è sicuro che non era la voce di un suo compatriota. Ognuno la paragona non già alla voce di un individuo la cui lingua gli sia familiare, ma proprio al contrario. Il francese suppone che sia la voce di uno spagnolo e anzi “avrebbe potuto distinguere qualche parola se avesse conosciuto lo spagnolo”. L’olandese afferma che era la voce di un francese, ma troviamo che il teste, “non conoscendo il francese, è stato interrogato per mezzo d’un interprete”. L’inglese la crede la voce di un tedesco, ma “non capisce il tedesco”. Lo spagnolo “è sicuro” che era quella di un inglese, ma “giudica dall’intonazione” soltanto poiché “non ha nessuna conoscenza dell’inglese“. L’italiano, la crede la voce di un russo, ma “non ha mai parlato con un russo”. Un altro francese, contrariamente a quello che ha detto il primo, è sicuro che la voce fosse d’un italiano, ma “non conoscendo quella lingua”, egli, come lo spagnolo, trae la sua certezza “dall’intonazione”. Come dunque doveva essere singolarmente insolita quella voce per poter dare origine a testimonianze di tal genere, nella cui intonazione persino i soggetti delle cinque grandi nazioni dell’Europa non avevano potuto riconoscere nulla che fosse loro familiare! (Ivi, p. 31).
Alla fine del racconto si scoprirà che la voce grossa appartiene al padrone dell’animale, mentre la voce acuta è dello stesso orangutan. Tutti i testimoni, dunque, hanno scambiato i versi di un animale per la voce di un essere umano. Come è potuto accadere un fatto del genere? Semplice. I testimoni “si aspettavano” di udire un dialogo tra due persone e avevano dunque interpretato i suoni amorfi della scimmia in maniera conseguente. In altre parole, il loro sistema di aspettative e credenze sull’accaduto aveva orientato la percezione acustica conferendole una fisionomia ben precisa e prevedibile. Il fatto che ognuno di essi abbia assegnato alla “voce” udita provenienze linguistiche diverse dalla propria ne è una conferma.
Questo racconto di Poe, per quanto naturalmente fictional, può dare adito a varie interpretazioni. Ad esempio, può far riflettere sulla labilità della testimonianza in ambito giudiziario. Mi piace far notare, però, come l’esperienza dei testimoni della Rue Morgue sia molto simile a quella dei partecipanti a una seduta spiritica o incontro religioso in cui si verificano casi di xenoglossia. Ricordo che la xenoglossia è quel fenomeno per cui si parla una lingua straniera, pur non conoscendola. A questo fenomeno sono state attribuite spiegazioni religiose (dono di dio, prova della verità della reincarnazione, ingerenza del diavolo ecc.), paranormali (la xenoglossia come intervento medianico di uno spirito dall’aldilà), psichiatriche (schizofrenia, isteria ecc.). Una spiegazione più semplice però chiama in causa il ruolo dei testimoni. Spesso, i partecipanti a una seduta spiritica o incontro religioso non sono in grado di poter dire che la lingua parlata dal medium o da chi riceve il “dono divino” sia davvero straniera perché non la conoscono. Sono però le loro aspettative e credenze a tradurre i suoni del medium o del religioso in una lingua “nota”. In altri termini, i testimoni scambiano un confuso borbottio per una lingua vera e propria, spinti dal proprio sistema di credenze e dalle proprie aspettative medianico-religiose. In questo modo, “costruiscono” l’evento di xenoglossia che può, appunto, contare perfino su testimoni di prima mano.
Prima di credere nell’esistenza di fenomeni straordinari, dovremmo fare, dunque, molta attenzione. Se non vogliamo correre il rischio di confondere i versi di una scimmia con i suoni di una lingua che non conosciamo.