La misteriosa “donna Bisodia”

In una lettera alla sorella Teresa del 16 novembre 1931, raccolta nelle sue Lettere dal carcere, Antonio Gramsci scrive:

Così avveniva a molti tipi di villaggio (ti ricordi il signor Camedda?)   che   per   fare   sfoggio   di   cultura,   raccattavano dai romanzi popolari delle grandi frasi e poi le facevano entrare a dritta e a traversa nella conversazione per far stupire i contadini. Allo stesso modo le beghine ripetono il latino delle preghiere contenute nella Filotea: ti ricordi che zia Grazia credeva fosse esistita una «donna Bisodia» molto pia, tanto che il suo nome veniva sempre ripetuto nel Pater noster? Era il «dona nobis hodie» che lei, come molte altre, leggeva «donna Bisodia» e impersonava in una dama del tempo passato, quando tutti andavano   in   Chiesa  e   c’era   ancora   un   po’   di  religione   in questo   mondo.   –   Si   potrebbe   scrivere   una   novella   su questa «donna  Bisodia» immaginaria che era portata a modello: quante volte zia Grazia avrà detto a Grazietta, a Emma e anche a te forse: «Ah, tu non sei certo come donna Bisodia!» quando non volevate andare a confessarvi per l’obbligo pasquale.

In linguistica, la paretimologia o etimologia popolare è il «processo con cui una parola viene reinterpretata sulla base di somiglianze di forma o di significato con altre parole, deviando dalla forma o dal significato originario» (Gian Luigi Beccaria (a cura di), Dizionario di linguistica, Torino, Einaudi, 1996, pp. 544–545). Il caso della donna Bisodia, personaggio fantastico tratto dalla cattiva interpretazione del latino «dona nobis hodie», è un classico esempio di paretimologia. Ma è anche un esempio di come le classi subalterne della società si sforzassero di dare un senso a una lingua che non conoscevano e che pure veniva imposta loro dalle autorità religiose. Il risultato era un rapporto con la liturgia cattolica a metà tra la venerazione timorosa e l’accettazione rassegnata  che ha per molto tempo caratterizzato il modo in cui il popolo ha vissuto la religione cristiana, almeno fino al 7 marzo 1965, data in cui fu celebrata la prima messa in lingua italiana.

Quello della donna Bisodia è anche un esempio di come un errore di interpretazione possa  dare vita a un personaggio inesistente sul quale, come osserva Gramsci, è probabile che, a livello popolare, si siano architettate mille ipotesi e narrazioni.

Peraltro, l’invenzione della donna Bisodia non risale ai tempi della zia di Gramsci, ma a molto prima. Essa compare, infatti, già nel XIV secolo, più precisamente nella novella XI del Trecentonovelle, raccolta di novelle dello scrittore italiano Franco Sacchetti (1332-1400). Ciò testimonia il fatto che le “incomprensioni” tra Chiesa cattolica e i suoi fedeli hanno secoli di storia alle spalle. Ecco il testo intero della novella.

NOVELLA XI

Alberto   da   Siena   è   richiesto   dallo   inquisitore,   ed   elli,   avendo paura, si raccomanda a messer Guccio Tolomei; e in fine dice che per Donna Bisodia non è mancato che non abbia aúto il malanno.

Al tempo di messer Guccio Tolomei fu in Siena uno piacevole uomo e semplice, e non malizioso come messer Dolcibene. Era costui balbo della lingua, e avea nome Alberto; il quale essendo   uomo   di   pura   condizione,   e   usando   spesso   in   casa   del detto messer Guccio, però che ‘l cavaliere ne pigliava gran diletto, avvenne che uno dí di quaresima, trovandosi messer Guccio con lo inquisitore, di cui era grande amico, compose con lui che l’altro dí facesse richiedere il detto Alberto, e quando fosse dinanzi da lui, gli opponessi qualche cosa di resía, e di questo ne seguirebbe

alquanto di piacere e allo inquisitore e a lui. Come il detto messer Guccio sí desse ordine, tornato che fu a casa, l’altro dí di buon’ora il detto Alberto fu richiesto che subito comparisse dinanzi allo inquisitore. Alberto tutto tremante, e se prima era balbo, a questo punto, avendo quasi perduta la lingua, appena poté dire: — Io verrò —; e andato a trovare messer Guccio,   dicendo:   —   Io   vi   vorrei   parlare   —;   e   messer   Guccio comprendendo quello che era, disse: — Che novelle? Dice Alberto: — Cattive per me, ché lo inquisitore mi ha fatto richiedere, forse per paterino.

Dice messer Guccio: — Averestú detto alcuna cosa contra la fede cattolica?

Dice Alberto: — Io non so che s’è la fede calonica, ma io mi credo essere cristiano battezzato.

Dice messer Guccio: — Alberto, fa’ come io ti dirò; vattene al vescovo; e di’: “Io  fui  richiesto,  e   appresentomi  dinanzi  a   voi”;   e  sappi  quello che ti vuol dire: dopo te poco stante verrò io; e lo inquisitore è molto mio amico, e cercherò dello spaccio tuo.

Disse Alberto:

— Ecco io vo, e affidomi in voi. E cosí si partí, e andonne al vescovo. Il quale là giunto, come il vescovo il vide, con uno fiero viso disse:

— Qual se’ tu?

Alberto balbo e tremante di paura disse:

— Io sono Alberto, che fui richiesto che io venisse dinanzi da voi.

— Or ben so, — dice il vescovo, — se’ tu quell’Alberto che non credi né in Dio, né ne’ santi?

Dice Alberto:

— Signor mio, chi ve l’ha detto non dice il vero, ché io credo in ogni cosa.

Allora dice il vescovo:

— E se tu credi in ogni cosa, dunque credi tu nel diavolo; e questo è quello che a me non bisogna altro ad arderti per paterino.

Alberto   mezzo   uscito   di   sé,   domandando   misericordia; dice il vescovo:

— Sai tu il  Paternostro?

Dice Alberto:

— Messer sí.

— Dillo tosto, — disse lo inquisitore.

Alberto   cominciò;   e   non   accordando   l’aggettivo   col   sustantivo, giunse balbettando a uno scuro passo, là dove dice:  da nobis hodie; e di quello non ne potea uscire. Di che lo inquisitore, udendolo, disse:

— Alberto, io l’ho inteso;  ché chi  è paterino, non puote dire le cose sante; va’, e fa’ che domattina tu torni a me, e io formerò il processo secondo che meriterai.

Dice Alberto:

— Io tornerò da voi; ma io vi prego per l’amore di Dio che io vi sia raccomandato.

Disse lo inquisitore:

— Va’, e fa’ che io ti dico.

Allora si partí, e tornando verso casa, trovò messer Guccio Tolomei che allo inquisitore per questa faccenda andava. Messer Guccio, veggendolo tornare, dice:

— Alberto, la cosa dee stare bene, quando tu torni.

Disse Alberto:

— Gnaffe! non istà, però che dice che io sono paterino, e che io torni a lui domattina, e ancora non mancò per quella puttana di donna Bisodia che è scritta nel  Paternostro che non mi facesse morire allotta allotta. Di che io vi prego per l’amore di Dio che andiate a lui e preghiate che io gli sia raccomandato.

Disse messer Guccio:

— Io vo là, e ingegnerommi fare ciò che io potrò al tuo scampo.

E  cosí andò messer  Guccio,  e  portando  all’inquisitore  la novella di donna Bisodia, ne feciono per due ore grandissime risa. E mandando lo inquisitore, innanzi che messer Guccio si partisse, per lo detto Alberto, ed elli con gran timore tornandovi, gli diede lo inquisitore ad intendere che se non fosse messer Guccio, l’averebbe arso; e ben lo meritava, però che di nuovo avea inteso ancora peggio, che d’una santa donna, cioè di donna Bisodia, sanza la quale non si puote cantare messa, avea detto essere una puttana; e ch’egli andasse e tenesse sí fatti modi che non avesse piú a mandare per lui.

Alberto, chiamando misericordia, disse non dirlo mai piú, e tutto doloroso della paura che avea aúta, con messer Guccio a casa si tornò. Il quale messer Guccio, avendo condotto la cosa come avea voluto, gran tempo nella sua mente ne godeo, e senza Alberto e con Alberto.

Belle sono le inventive de’ gentiluomeni per avere diletto di nuove e di semplici persone; ma piú bello fu il caso che la fortuna   trovò   in   Alberto,   essendo   impacciato   da   donna   Bisodia;   e forse forse, se Alberto fosse stato uno ricco uomo, lo inquisitore gli averebbe dato tanto ad intendere che si serebbe ricomperato de’ suoi denari, per non essere arso o cruciato.

Oggi le paretimologie abbondano in riferimento a un’altra lingua, l’inglese, e sono vissute con indulgenza, quasi che l’inglese, di per sé, conferisse carisma e competenza a chi lo pratica. Abbiamo così parlanti che si compiacciono di dire “ti lovvo” perché suona tanto “fico”, anzi cool, anche se poi non sarebbero in grado di sostenere una vera conversazione in inglese.

Un tempo, le paretimologie creavano imbarazzo; oggi conferiscono prestigio.

Alle paretimologia ho dedicato altri post. Li trovate qui, qui e qui.

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