Ermanno Rea, nel suo libro La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli), pubblica un documento eccezionale: una lettera attraverso cui Giacomo Leopardi supplica un posto di lavoro al cardinal Consalvi. Sì, proprio lui, Giacomo Leopardi, modello di poesia per generazioni di italiani, che implora una volgare raccomandazione al potente di turno.
Eminentissimo Principe. Incoraggiato dai luminosi esempi di sua generosa benevolenza verso quei sudditi Pontificii che in qualche modo si affaticano per li progressi de’ buoni studi, supplico l’Eminenza Vostra Reverendissima a rivolgere anche sopra di me i suoi benefici sguardi.
Essendomi finora applicato alle lingue classiche e a quelle materie che più direttamente dipendono dalle medesime ho pur troppo conosciuto che dovrei rinunziare a ogni speranza di ulteriori avanzamenti se continuassi a vivere in Recanati mia patria.
D’altronde mio padre aggravato di prole, e per le passate vicende attenuato di rendite, non ha mezzi di mantenermi in altro luogo dove la Società d’uomini di Lettere, e il soccorso de’ libri possano perfezionare le mie deboli cognizioni.
Sarebbe pertanto mia fervida brama di giungere a questo scopo coll’esercizio di qualche impiego amministrativo, nel quale servendo fedelmente lo Stato, avessi il modo di servire ancora, secondo le mie scarse forze, all’incremento di quelle scienze a cui mi sono dedicato.
Veggo che niun impiego potrebb’essere più confacente alle mie mire e alle mie ristrette capacità che quello di Cancelliere del Censo in qualche importante Capoluogo di Delegazione. E se attualmente non ve n’ha alcuno vacante, non manca certamente all’Eminenza Vostra Reverendissima il modo di supplire a ciò, conferendo ad alcuno degli attuali Cancellieri del Censo qualche equivalente impiego che fosse ora vacante o per vacare.
Supplico l’Eminenza Vostra a perdonare colla sua tanto acclamata bontà il mio ardire, ed attribuirlo alla fiducia m’ispira il suo gran cuore, permettendomi intanto di segnarmi con profonda venerazione e gratitudine di Vostra Eminenza Reverendissima umilissimo, devotissimo, obbligatissimo Servitore.
Ora ci potremmo fare mille domande. Come è possibile che uno come il Leopardi, da tutti additato a modello artistico e pedagogico, potesse ricorrere a una volgare raccomandazione (Ermanno Rea, fra l’altro, ci dice che l’implorazione non sortì alcun risultato)? Se nemmeno Leopardi fu immune al virus della raccomandazione, come potremmo esserlo noi comuni mortali? Tutto questo vuol dire forse che i grandi non sono tanto grandi? E che gli umili sono meno umili? Che fiducia possiamo avere in qualcuno che ricorre alla raccomandazione?
Un paio di parole a commento di questi interrogativi. L’idea che un posto di lavoro vada messo a concorso è idea molto recente. In passato, a certi posti si accedeva solo per volere di qualcuno. Probabilmente a una carica come quella di Cancelliere del Censo si accedeva solo per interposta persona. All’epoca non esistevano nemmeno i concorsi pubblici come li concepiamo oggi. Leopardi, dunque, faceva semplicemente quello che chiunque altro al suo posto avrebbe fatto. Non c’era alternativa. O supplicare o rinunciare al posto di lavoro. Insomma, basta un po’ di buon senso sociologico per rimettere le cose a posto ed evitare un banale errore di anacronismo. Che Ermanno Rea però compie.
Questo episodio ci insegna anche un’altra cosa. E cioè che tendiamo a sottovalutare il livello di meritocrazia esistente nella nostra società. Tanto da pensare che esso sia sempre esistito e che non sia, invece, una conquista relativamente recente. Nel nostro anelito a una società sempre più meritocratica, non consideriamo che nessuna società, probabilmente, è stata meritocratica quanto la nostra. Questo non significa che viviamo nel migliore dei mondi possibili, ma che non dobbiamo dimenticare ciò che già abbiamo e che vogliamo – a ragione – migliorare sempre più.