La legge di Zipf, dal nome del linguista George Kingsley Zipf (1902-1950), stabilisce l’esistenza di un rapporto inverso tra la lunghezza di una parola e la sua frequenza. Questo significa che le parole la cui frequenza aumenta nell’uso del linguaggio tendono a essere abbreviate, per cui “automobile” diventa “auto” e “televisione” “tele”. La legge di Zipf sembra trovare una curiosa applicazione nella mia Regione, in Campania, dove alcuni vocativi affettuosi, come “tesoro” e “amore” tendono a essere sistematicamente abbreviati nell’uso a “teso’” e “amo’”, prima, e a “teso” e “amo” poi. Questa tendenza, ormai dilagante, si associa alla tendenza ad adoperare i due vocativi anche con persone a cui non si è legati da particolari legami affettivi o sentimentali, come amici, conoscenti, perfino sconosciuti, di entrambi i sessi. Il destino di queste due parole è affine a quello di “caro”, ormai adoperato come vocativo in qualsiasi contesto relazionale. Non è difficile trovarsi in un ristorante e sentire il cameriere che si rivolge a te usando l’espressione “Sì, caro”; o il collega di lavoro che, invece di augurarti il buongiorno, ti apostrofa con “Caro!”.
Inutile dire che l’abuso di termini concepiti per esprimere affetto finisce con lo svuotare di ogni significato i termini stessi, che perdono così ogni carica affettiva per divenire puri epiteti.
Trovo profondamente irritante questo abuso e se avessi inclinazioni politiche proporrei la fondazione di un “movimento per l’abolizione di amo e teso”, che naturalmente non avrebbe alcun successo. In mancanza di qualsiasi predisposizione partitica, dovrò rassegnarmi a questa ulteriore storpiatura della nostra lingua o, almeno, sperare che sia solo una moda passeggera.