È cosa fin troppo nota per parlarne: da quando i suoi invitati celebri avevano capito che la serietà dell’impresa non imponeva loro grandi sforzi, si comportavano da esseri umani, e Diotima, che vedeva la sua casa piena di rumore e di intelligenza, era delusa. Poiché era un’anima nobile non conosceva la legge della prudenza secondo la quale l’uomo nella vita privata si comporta al contrario che nella sua professione. Non sapeva che gli uomini politici dopo essersi dati in assemblea dell’impostore e del ladro, al ristorante pranzano amichevolmente l’uno accanto all’altro. Sapeva, ma non ci aveva mai trovato nulla da ridire, che i giudici, dopo aver inflitto a un disgraziato una grave condanna, finito il dibattimento gli stringono compassionevolmente la mano. Che le ballerine oltre al loro mestiere equivoco conducessero sovente una vita di madre irreprensibile l’aveva sentito raccontare e lo trovava addirittura commovente. Le sembrava anche molto bello e simbolico che i principi di tanto in tanto deponessero la corona per non essere che uomini come gli altri. Ma quando s’avvide che anche i principi dello spirito vanno a spasso in incognito, quella doppia esistenza le parve molto strana. Di che passione si tratta, e qual è la legge che governa questa tendenza generale e fa sì che l’uomo, fuori d’ufficio, non vuol far sapere nulla dell’uomo ch’egli è nell’esercizio della professione? Finito il lavoro, quand’è di buon umore, è come uno studio ben rassettato, con gli oggetti di cancelleria rinchiusi nei cassetti e le seggiole allineate. Sono due uomini diversi e non si sa se riprendono la loro vera personalità al mattino o alla sera (Musil, R., 1972, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, p. 415).
Più volte mi è capitato di constatare la verità della “legge della prudenza” di Musil. È come se molte persone riuscissero ad attribuire ai propri ruoli sociali personalità diverse, se non opposte, e non per ipocrisia, ma, probabilmente, perché ambiti diversi sollecitano risposte diverse.
Ci sono persone implacabilmente minuziose quando sono al lavoro e incredibilmente superficiali in famiglia. Dirigenti sadici che si trasformano in agnellini sacrificali al cospetto del partner o dei figli. Professori universitari che sembrano possedere lo scibile umano nel proprio ambito di conoscenza e si rivelano spaventosamente ignoranti in altri ambiti.
Si pensi, per fare un esempio letterario, alla presentazione di Sherlock Holmes fatta da Watson in Uno studio in rosso, il primo libro di Conan Doyle dedicato allo straordinario investigatore: «Cognizioni di Sherlock Holmes. 1. Letteratura: zero. 2. Filosofia: zero. 3. Astronomia: zero. 4. Politica: scarse. 5. Botanica: variabili. 6. Geologia: pratiche, ma limitate. 7. Chimica: profonde. 8. Anatomia: esatte. Ma poco sistematiche».
È vero, altresì, che una persona che esprime giudizi estremamente riprovevoli nei confronti di determinate condotte può rivelarsi estremamente permissivo, se non indulgente, nei confronti di altre.
Credo che tutto ciò avvenga non per una questione di prudenza, come sostiene Musil, ma perché ambienti diversi sollecitano aspetti diversi della nostra personalità, che si manifestano talvolta anche in maniera contradditoria. Si può essere, dunque, persone detestabili nel proprio ambiente professionale e incredibilmente amabili con gli amici; sorridenti con i figli e seriosi con i colleghi. Tanto che persone diverse farebbero fatica a riconoscere elementi comuni nelle descrizioni della stessa persona provenienti da contesti sociali diversi.
Più che schizofrenia o prudenza, parlerei di complessità della persona umana, chiamata a interpretare nella nostra società ruoli sempre più esigenti e spesso conflittuali tra loro. Questo significa che non esiste un sé unico e autentico rispetto al quale tutti gli altri sé sarebbero finzioni. Non serve a nulla, dunque, invocare un “sii te stesso” perché siamo tanti sé quanti ne richiede la vita.