La psicologia cognitiva è una miniera di rivelazioni sui limiti della nostra mente e ci insegna a dubitare seriamente di alcune propensioni “naturali” del nostro pensiero. Una di queste propensioni – o bias, come si dice in gergo psicologico – è nota come “fallacia della vividezza” e rappresenta una vera e propria trappola in cui ognuno di noi tende a cadere con maggiore o minore frequenza.
La fallacia consiste nell’attribuire una maggiore attendibilità o verosimiglianza a informazioni concrete, salienti, personalmente rilevanti o facilmente percepibili rispetto a informazioni astratte, impersonali, espresse in forma matematica o statistica o riguardanti fatti distanti da noi. E questo anche se le informazioni astratte contengono un valore di verità superiore a quelle delle informazioni vivide. Facciamo qualche esempio.
È un fatto che ciò che sperimentiamo di persona sia ritenuto da noi più affidabile di un resoconto di seconda mano. Se, entrando in un negozio, “sperimentiamo” che in esso sono praticati sconti superiori alla media, questa informazione avrà su di noi un impatto sicuramente maggiore che se acquisiamo la medesima informazione da un conoscente. Allo stesso modo, un aneddoto ci appare molto più convincente e veritiero di un complesso insieme di dati statistici: se a un nostro amico capita di essere derubato in una determinata area della nostra città, questa informazione avrà un impatto sul nostro sistema di pensiero molto maggiore di un freddo complesso di numeri che rappresenta statisticamente i tassi di criminalità presenti in quell’area. Ancora, un’impressione particolarmente intensa raccoglie, solitamente, maggiore fiducia di una meno chiara. Se conosciamo qualcuno che muore all’età di 99 anni dopo aver fumato tre pacchetti di sigarette al giorno per tutta la vita, è probabile che questa “testimonianza vivida” abbia una influenza persuasiva sul nostro atteggiamento nei confronti del fumo superiore a mille dati che si esprimono in senso contrario.
Il pericolo di questa fallacia è evidente: se cediamo a essa, tenderemo a credere nella verità di alcune informazioni solo perché sono rappresentate in maniera “vivida” dalla nostra mente. In particolare, è alto il rischio di sottovalutare la portata di alcune informazioni rilevanti a vantaggio di informazioni di importanza secondaria, il cui unico merito è di apparire più vivide. L’implicazione più preoccupante della vividezza come criterio di verità è che alcuni tipi di informazioni, per quanto preziose, eserciteranno un’influenza minima su di noi solo perché sono in forma astratta. Ciò è vero in particolare per i dati statistici, certamente privi del fascino di una storia personale, ma dotati spesso di un contenuto di verità maggiore.
La morale, come dicevano gli antichi, è che dobbiamo saper vagliare con attenzione informazioni ed eventi che ci coinvolgono in prima persona e imparare a diffidare dei loro contenuti. Non sempre ciò che ci colpisce di più è più vero. Non sempre un aneddoto è più aderente alla realtà di un grafico statistico. Così, se un cugino ci dice di aver visto un dipendente pubblico rubare, ciò non vuol dire che il furto sia, in genere, più diffuso tra i dipendenti pubblici rispetto alla popolazione nel suo complesso.
Impariamo, dunque, a diffidare, per principio, di quello che più colpisce i nostri sensi. Non necessariamente, infatti, da ciò discenderà l’apprendimento di informazioni vere.