Nell’azione che precede un gol tutto si mostra come assolutamente contingente e discordante se viene osservato nel momento in cui accade e si svolge. Vogliamo dire che tutto appare in qualche modo abbastanza casuale: il passaggio in profondità, il tocco di prima dell’attaccante a smarcare l’ala sinistra, il ritorno morbido del cross sul quale irrompe il trequartista appoggiando in gol di testa. Ma una volta che tali azioni hanno condotto al gol, queste appaiono come imprescindibili, assolutamente concordanti e necessarie. Vedendole in modo retroattivo si è necessariamente condotti a pensare che l’intreccio narrativo di quella fase della partita non poteva che andare in quel modo: il gol poteva scaturire solo da quell’insieme di azioni lì (Ferraresi, M., 2012, Pubblicità e comunicazione, Carocci, Roma, p. 204).
Così il sociologo Mauro Ferraresi descrive, senza nominarlo, uno dei più potenti bias della nostra mente e, al tempo stesso, uno dei più pervasivi della mente del tifoso: il “bias del senno di poi” o “hindsight bias”.
Per bias del senno di poi si intende il meccanismo in base al quale le persone tendono a credere nella inevitabilità o maggiore probabilità di un fatto appena verificatosi rispetto a quanto ci si poteva aspettare originariamente. In questo processo, le prove coerenti con l’accadimento in questione vengono valorizzate, mentre le prove incoerenti sono minimizzate o svalutate.
Questo del senno di poi è un bias connaturato al modo di funzionare della nostra memoria. Noi, infatti, non abbiamo ricordi statici: la memoria è un processo dinamico che implica la costante ricostruzione, un puzzle di frammenti che vengono assemblati e richiamati alla mente quando ci occorrono, sempre in bilico e pronti a essere sostituiti o modificati da informazioni successivamente sopravvenute. Nella rielaborazione dei dati a noi presenti siamo portati a credere che un determinato scadimento, già verificatosi, sia stato molto più probabile di quanto lo potessimo stimare inizialmente. In altri termini, il nostro pensiero nella rielaborazione dei dati non si va a collocare nel momento che precede l’evento, per verificare se esistessero condizioni evidenti che consentivano di temere il verificarsi dell’accadimento. Al contrario, esso va a porsi a posteriori, quando l’evento si è ormai realizzato e quando quindi è più facile spiegarlo, anche se le probabilità di partenza potevano essere minime.
Partendo da questa modalità implicita nei funzionamento della memoria, le informazioni che traggono spunto dal fatto accaduto vengono enfatizzate e più facilmente ricordate, mentre quelle che, viceversa, gli si contrappongono – seppure altrettanto probabili – vengono sminuite o svalorizzate, senza motivo apparente (Forza, A., Menegon, G., Rumiati, R., 2017, Il giudice emotivo, Il Mulino, Bologna, pp. 159-160).
Nel calcio questo bias è particolarmente potente.
«Immaginiamo di andare a una partita di calcio tra due squadre che hanno alle spalle lo stesso numero di vittorie e sconfitte. La partita è finita e una delle due ha sconfitto pesantemente l’altra. Nel nostro modello riveduto e corretto del mondo, la squadra vincente è molto più forte della perdente, e la nostra visione del passato e del futuro è stata modificata dalla nuova percezione» (Kahneman, D., 2012, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano, p. 222). Improvvisamente, i dubbi che avevamo sulle due squadre sono spazzati via: il centravanti della squadra vincente ci appare molto più forte e in forma di quello della squadra perdente (anche se all’inizio li stimavamo alla pari) e le idee dell’allenatore della squadra umiliata ci sembrano inevitabilmente fallimentari (anche se sembravano rendere inizialmente).
Il senno di poi è accompagnato da tutta una serie di frasi ed espressioni che ci capita di sentire spesso. “Se l’arbitro avesse ammonito quel giocatore…”; “Se la palla non fosse finita sul palo…”; “Senza l’espulsione avremmo visto un’altra partita…”; “Senza quel rigore avremmo visto un’altra partita”. Il periodo ipotetico dell’irrealtà è una delle figure grammaticali più frequentate dai tifosi. Attraverso questa costruzione, essi esprimono rimpianto, rammarico, tristezza, frustrazione, insofferenza, desiderio insoddisfatto. Maneggiando in continuazione la congiunzione “se”, inserendola a forza in protasi inverosimili, seguite da apodosi altrettanto improbabili, il tifoso manifesta sentimenti, sensazioni, stati d’animo. Ma anche convinzioni illegittime che, se solo quell’evento fosse accaduto, la partita sarebbe sicuramente cambiata, nel verso, ovviamente, auspicato dal tifoso. Così se l’arbitro avesse fischiato il rigore sacrosanto, macroscopico, da fallo colossale, la squadra si sarebbe sicuramente portata sul 2-0, gli avversari si sarebbero sicuramente demoralizzati e avrebbero sicuramente preso il terzo gol o almeno perso la partita. Il tifoso già sa. Prima che tutto si compia, è già in grado onniscientemente di prevedere il futuro, tanto che ci si meraviglia della sua incapacità di centrare la vincita milionaria alla scommessa di turno sull’esito di questo o quell’incontro.
Una delle conseguenze di questo bias è che il tifoso tende a incolpare i calciatori delle decisioni buone che hanno avuto cattivo esito e a non apprezzarli abbastanza per le mosse efficaci che hanno compiuto e che sembrano ovvie solo a posteriori.
Soprattutto, però, il bias del senno di poi rende i tifosi falsamente onniscienti, condannandoli a un eterno “Hanno visto tutti!”, come recita il titolo del mio ultimo libro, che “inevitabilmente” vi invito a leggere.
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