È stata l’economista Sylvie Brunei a coniare il termine «disneylandizzazione del mondo» a indicare il fatto che l’industria del turismo non fa altro che proporre simulacri di luoghi, terre esotizzate, spettacoli di pura evasione e città ridotte a uso esclusivo o quasi dei turisti che decantano una autenticità che è solo camuffamento del finto, del fasullo, del facsimile.
E così la nostra fame di autentico a tutti i costi viene soddisfatta attraverso la somministrazione di fake su misura, buoni per tutte le tasche e tutti i gusti.
Un po’ in tutto il mondo, le tradizioni diventano pura scenografia, valorizzazione dello stereotipo, ricetta da ammannire secondo canoni prevedibili e desiderati proprio perché prevedibili. Danze, costumi, ambienti, cibi vengono spettacolarizzati, semplificati e cristallizzati in forme senza tempo e senza spazio per dare luogo a «vetrine identitarie» tipiche e pittoresche, funzionali alle attese dei turisti in cerca di esotismo, impazienti di lasciarsi spaesare.
Così, chi viene a Napoli si aspetta di trovare un ambiente suggestivo e accogliente, di mangiare determinati cibi (sfogliatella, pizza ecc.) in determinati modi, di imbattersi in persone calorose e “mediterranee”, musiche eternamente melodiose e glorificate dalla immutabilità, pulcinella sempre divertiti e divertenti, una storia ferma a qualche secolo fa. Perché è questo che il turista vuole. E il territorio si adegua, realizzando una delle più incredibili profezie che si autoavverano della storia umana.
Come ricorda Gilles Lipovetsky,
gli operatori del settore portano in scena un immaginario stereotipato dei «costumi» scorporati dal loro contesto sociale di origine, abbelliscono i riti antichi, smerciano un patrimonio sclerotizzato e ricreato artificialmente, fabbricano degli universi sotto una campana di vetro, delle bolle turistiche asettiche e sicure, moralizzate e artificiali, mondate di ogni elemento potenzialmente problematico. La disneylandizzazione consacra su scala planetaria la vittoria del falso e dell’artificiale sull’autenticità, il trionfo commerciale del cliché, dello spettacolo, della turistizzazione del patrimonio (Lipovetsky, G., 2022, La fiera dell’autenticità, Marsilio, Venezia, p. 277).
Il turismo è propagandato come risorsa dei territori, fonte di ricchezza e di lavoro, ma è anche forma di evasione per masse perennemente alienate (e che continueranno a esserlo fino alla morte) e soprattutto stravolgimento del quotidiano a favore del falso-che-appare. Insomma, nel nostro mondo che pure anela l’autenticità più autentica, viviamo sommersi dal non-autentico per convenienza e perché lo esige l’economia.
Niente di male, si potrebbe obiettare. Il falso e l’illusione fanno parte della vita. Anzi, la rendono degna di essere vissuta. Disneylandizzare il mondo significa, però, renderlo merce di plastica. È questo il falso di cui abbiamo davvero bisogno?