La legge del taglione venne data da Mosè al popolo d’Israele in tre occasioni.
La prima volta in Esodo 21, quando Mosè ricevette di fronte al monte Sinai una serie di norme che prefiguravano un embrione di diritto penale: «Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Esodo 21, 22-25. Bibbia CEI).
La legge del taglione era posta accanto ad altre leggi che oggi farebbero inorridire per la loro crudeltà. Ad esempio: «Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte» (Esodo 21, 17) oppure «Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è acquisto del suo denaro» (Esodo 21, 20-21).
La legge del taglione venne ribadita in Levitico 24, 17-20: «Chi percuote a morte un uomo dovrà essere messo a morte. Chi percuote a morte un capo di bestiame lo pagherà: vita per vita. Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro». Anche in questo caso, la legge del taglione è posta accanto ad altre leggi tremende, come: «Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo del paese, se ha bestemmiato il nome del Signore, sarà messo a morte» (Levitico 24, 16).
La terza e ultima volta è ricordata in Deuteronomio 19, 21, quando gli israeliti stavano per entrare nella terra promessa: «Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede».
Sarebbe troppo semplice giudicare la legge del taglione come una modalità barbara e incivile di fare giustizia, una forma di vendetta primitiva e inumana. Del resto, nel nostro ordinamento penale, essa non è ammessa in quanto lo Stato possiede il monopolio della violenza fisica legittima.
Ma è proprio questo il punto: in un’epoca in cui non esisteva uno Stato come noi lo concepiamo, non esisteva un diritto penale come lo intendiamo oggi, non esistevano né poliziotti né palazzi di giustizia, era facile, in occasione di fatti di sangue, oltrepassare la misura e abbandonarsi a vendette sanguinose che imponevano una pena ben superiore al reato commesso dall’autore del delitto.
Così, se un uomo perdeva un occhio nel corso di una zuffa, non era infrequente che il suo clan togliesse la vita al responsabile; azione che poteva innescare, proprio perché avvertita come eccessiva, una catena, potenzialmente infinita, di reazioni altrettanto sanguinose e dalle conseguenze distruttive per tutta la comunità.
La legge del taglione venne, dunque, a stabilire un principio di equità: la perdita di un occhio non poteva che essere “riparata” dalla perdita di un altro occhio; quella di una mano dal taglio di un’altra mano e così via. Si castigava duramente il colpevole, circoscrivendo la ritorsione entro i confini esatti del delitto. Si limitava la potenziale pericolosità della vendetta incontrollata, ponendo limiti alle richieste della vittima e tutelando, ancorché in modo rozzo, i diritti degli individui.
Siamo ancora lontani da una “giustizia giusta”, ma certamente la legge del taglione non dovrebbe essere percepita etnocentricamente come la quintessenza della barbarie, come ancora oggi si equivoca. Si trattava di un diritto poco compassionevole, ma a suo modo riequilibrativo, teso a risanare il legame con la società rotto dal fatto criminoso. Principio che oggi è considerato fondamentale nella cosiddetta “giustizia riparativa”.