Le istituzioni, siano esse totali o no, tendono a sviluppare un linguaggio infantilizzante che mira a “umiliare” i propri membri e a ricordare loro costantemente che essi sono “meno” dell’istituzione a cui appartengono oppure che occupano una posizione inferiore all’interno della gerarchia legittima creata per lo svolgimento dei compiti funzionali all’istituzione stessa. Talvolta, tale linguaggio, nobilitato dalla tradizione o dall’uso, finisce con l’emanciparsi dal suo contesto di origine e a perdere il significato iniziale. Spesso, viene interiorizzato e ostentato in modo da comunicare appartenenza a un’istituzione di cui si è fieri di fare parte.
Nelle istituzioni burocratiche, ad esempio, i lavoratori sono definiti “impiegati”. Non molti riflettono sul fatto che “impiegato” è il participio passato di “impiegare”, cioè “usare”, “sfruttare”. Eppure, è facile imbattersi in dipendenti pubblici orgogliosi di essere “impiegati”, anche se il termine rimanda a una condizione poco nobile (essere usati non è qualcosa di cui solitamente ci si vanti, a meno di non essere masochisti).
A proposito di dipendenti pubblici, il termine “dipendente” è il participio presente del verbo “dipendere”, altro termine dalla connotazione originaria “umiliante”, oggi quasi del tutto scomparsa. Anche “funzionario”, cioè “destinatario di una funzione”, sembra ridurre chi è investito di tale titolo al ruolo di “rotella del sistema”. Gli impiegati sono detti anche servitori pubblici. Insomma, tutto un repertorio di termini relativo a chi lavora all’interno di istituzioni pubbliche esprime originariamente subalternità, passività, assenza di umanità e dignità, cosalizzazione.
In ambiente militare, l’infantilizzazione è perfino più accentuata. Il “fante” ha origine linguisticamente dalla stessa fonte da cui proviene “infante” (“colui che non sa parlare”, etimologicamente). In Marina, la parola “mozzo” – colui che vale meno di tutti a bordo di una nave – ha origine da mucus, e significa dunque “moccioso”, “ragazzino”. Nella marina mercantile, il termine “piccolo” designa chi svolge funzioni di cameriere. Chi svolge funzioni servili viene chiamato, in altri contesti, garçon, in francese, criado, in spagnolo.
Infine, è noto come nelle istituzioni in cui sono ospitate le persone con disabilità, queste sono spesse chiamate “ragazzi/e” anche se hanno 50 anni, come se la loro condizione li rendesse “infanti” a vita.
Insomma, il linguaggio infantilizzante sembra essere uno strumento con il quale ogni istituzione impone ai suoi membri, da un lato, la propria prevalenza sui membri stessi (l’istituzione è più importante dei suoi membri), dall’altro, una gerarchia di funzioni al cui fondo sono relegati i ruoli più svilenti sui quali l’inferiorità è impressa perfino nel nome.
Il fatto più curioso, come detto, è che tali nomi, in alcuni casi, perdono, con il tempo, la loro etimologia inferiorizzante ed entrano nella percezione comune come nomi neutrali o, addirittura, definizioni di ruoli degni e ambiti, come nel caso di “impiegato pubblico”.
In queste circostanze, il prestigio dell’istituzione ha la meglio sull’origine della parola ed emenda apparentemente il nome dalla “umiliazione etimologica” insita in esso; umiliazione che tuttavia perdura nella realtà, come è evidente dalla biografia lavorativa di qualunque impiegato pubblico.