Viviamo nell’epoca delle intercettazioni. Le intercettazioni sono divenute lo strumento prediletto e indispensabile di indagine, ma anche, come dice Roberto Saviano, un genere letterario che informa saggi, narrativa e film. La tentazione è quella di pensare che sia facile trascrivere una voce intercettata. Al limite, se non si capisce o è coperta da rumori, il trascrittore ha il dovere di indicare che i suoni che ascolta sono incomprensibili e così si evita ogni ambiguità. Ma le cose non stanno così. Lo testimoniano le storie di decine e decine di intercettazioni fraintese, specie quando è in ballo una lingua straniera e, in particolare, la lingua straniera per eccellenza dei nostri tempi: l’arabo.
Un esempio clamoroso è fornito da Bianca Stancanelli nel suo libro Quindici innocenti terroristi, pubblicato nel 2006 da Marsilio, che racconta le tragicomiche avventure di un gruppo di arabofoni in una moschea di Via Gioberti a Roma nel 2001, sospettati di voler avvelenare Roma e di chissà che altro. Di questi “innocenti terroristi”, tutti poi scagionati, gli inquirenti avevano registrato fiumi di parole compromettenti, poi prosciugatesi miserevolmente in seguito a una serie di perizie. In sostanza, gli addetti alle trascrizioni avevano interpretato le parole degli intercettati con molta fantasia, attribuendo loro un senso molto preciso e incriminante, anche se, come riconosce l’ingegnere Andrea Paoloni, esperto del settore, intervistato dalla stessa Stancanelli, «per lo più non si capiva nulla. Le frasi volavano all’aria, non si riusciva a distinguere chi le avesse pronunciate. Si sentiva spesso la preghiera. Tanto che un interprete ha ipotizzato che siano stati trascritti, come se fossero stati pronunciati in italiano, alcuni brani del Corano». Ma come è possibile tutto questo? Come è possibile trarre da suoni senza senso frasi compiute e minacciose? Un ruolo ce l’ha sicuramente la pareidolia come riconosce Paoloni pur non menzionando mai il nome:
Se lei ascolta per mezz’ora dei giapponesi che parlano tra loro, a un certo punto potrà accaderle di sentire qualche parola che le sembrerà in italiano. Che so, “mora”, che in giapponese significa sillaba. Capita. Soprattutto se uno vuole trovare qualcosa. Un suono arabo può essere interpretato come una frase italiana. E se uno si convince di un significato e prova a riascoltare l’intercettazione, poi finisce col sentire con chiarezza l’esatta frase che ha in mente.
Insomma, proprio come con i dischi suonati al contrario, la pareidolia acustica è in agguato anche nelle intercettazioni. Soprattutto se si è già convinti di poter attribuire un significato a ciò che si ascolta e si incontrano suoni che ricordano termini conosciuti. Il problema è che, a differenza dei dischi ascoltati al contrario, nel caso delle intercettazioni è in ballo la vita delle persone e il loro destino penale e penitenziario. Per una parola fraintesa pareidolicamente, si può mandare la gente in prigione. Come è accaduto e continua ad accadere soprattutto ai parlanti della lingua araba.