In un precedente post, ho discusso dell’inutilità del carcere come ente pubblico, considerato il fallimento dei suoi due obiettivi principali, la deterrenza e la risocializzazione, alla luce di alcuni dati presentati nel pamphlet, di recente pubblicazione, Abolire il carcere. Un altro mito molto diffuso vuole che l’Italia sia tra i paesi che meno ricorrono alla detenzione come sanzione penale, al punto che gli stranieri verrebbero nel nostro paese perché qui è più facile commettere reati e farla franca. Alcuni dati tratti dal pamphlet citato smontano questo mito.
Nonostante la sua intollerabilità, il carcere è ancora oggi l’istituzione principale del sistema penale, non solo in Italia. Ma non in tutti gli ordinamenti la reclusione ha l’indiscussa centralità che ha da noi. Si pensi, ad esempio, che se in Italia l’82,6 per cento dei condannati sconta la pena in carcere, in Francia e Gran Bretagna la percentuale scende al 24 per cento e che uno degli indici di recidiva più basso d’Europa (30-40 per cento nei primi tre anni) è ottenuto in Svezia, soprattutto attraverso il lavoro all’esterno e con pene non carcerarie. In Gran Bretagna e in alcuni Stati americani le attività rieducative sono state recentemente valorizzate addirittura attraverso i social impact bond, ovvero progetti d’investimento sociale basati sulla raccolta di fondi privati per programmi di reinserimento sociolavorativo dei detenuti, con una remunerazione del capitale di rischio proporzionale al perseguimento del fine del reinserimento sociale (ne è derivata una riduzione del rischio di recidiva del 7,5 per cento).
Insomma, negli altri ordinamenti vi è un ampio ricorso alle pene non detentive, dimostratesi molto più utili nella prevenzione della recidiva e nel reinserimento sociale. In questo senso si muove anche l’Unione europea, che sin dalla decisione quadro 2008/947/Gai ha sollecitato un’ampia applicazione delle misure alternative alla detenzione e dei vari istituti volti a consentire il differimento dell’esecuzione della pena, al fine di verificare le possibilità di reinserimento sociale dei condannati. Le misure non carcerarie sono valorizzate anche dal Consiglio d’Europa, che sin dalla Raccomandazione 16/1992 ha auspicato l’ampliamento del novero delle misure alternative negli Stati membri, tra le quali anche le community sanctions, che «mantengono il reo nella società con l’imposizione di alcuni obblighi e condizioni» secondo un indirizzo poi ripreso, con riferimento alla liberazione condizionale e all’affidamento in prova, dalla Raccomandazione 22/2003 (Abolire il carcere, pp. 72-73).
Questi dati ci suggeriscono che, in Italia, il problema non è lo scarso ricorso alla reclusione, ma esattamente l’opposto: la scarsa propensione ad alternative costruttive al carcere. E che l’eccessivo ricorso al carcere ha terribili effetti controproducenti in un paese come il nostro che privilegia la marginalizzazione all’inclusione, la punizione alla responsabilizzazione. Per quanto paradossale, l’abolizione del carcere permetterebbe di superare questa impasse a favore di un nuovo rapporto con la società e il crimine.