In un’epoca secolarizzata come la nostra, la giusta pronuncia dei suoni – la dizione corretta delle parole – è considerata una dote che conferisce, in determinati contesti, prestigio, oltre che essere ricercata in talune professioni (speaker, attore, giornalista ecc.) e favorire l’inclusione sociale. L’ortoepia (la corretta pronuncia di una lingua) può comunicare infine competenza, credibilità, sicurezza, istruzione e altre qualità.
Un tempo, la pronuncia errata di una parola o di un suono poteva compromettere il buon esito di una preghiera o di una formula religiosa in modi per noi sorprendenti.
Nelle preghiere cerimoniali batak, in Indonesia, ad esempio, non erano ammessi errori nell’accento o nella pronuncia di una parola. Le formule di preghiera dei romani erano recitate in maniera chiara e con espressività, la minima imprecisione di pronuncia o anche soltanto un’interruzione invalidavano la preghiera.
La pronuncia esatta del nome o del titolo onorifico svolgeva un ruolo particolarmente importante. In Cina ogni essere superiore deve essere chiamato con il giusto titolo dagli ufficianti, il cielo si chiama “cielo sublime”, “sommo signore”, l’avo “sommo antenato”, la terra “terra principe” ecc.. Poiché a Roma si era incerti sul nome o il titolo esatto della divinità, si usava aggiungere all’invocazione questa prudente osservazione: sive deus sive dea es («che tu sia un Dio o una Dèa»); e si concludeva l’elenco dei nomi e dei predicati con la frase: seu quo nomine vis appellati («o con qualunque [altro] nome vuoi essere chiamato»).
In questo modo, però, la preghiera perdeva completamente il suo carattere naturale e sfociava nel sortilegio superstizioso: si attribuiva, infatti, alle parole una forza infallibile, magica e immanente, mediante la quale o si esercitava una costrizione assoluta sugli esseri superiori, oppure questi ultimi erano tolti di mezzo, e il desiderio del recitante si realizzava direttamente e automaticamente (Heiler, 2016,).
Tali forme superstiziose oggi non esistono più, ma la giusta pronuncia delle parole sembra ancora sortire effetti magici: alcuni anni fa un esperimento dimostrò che lo stesso contenuto recitato in perfetto italiano o in un dialetto dell’Italia meridionale produceva conseguenze diverse in termini di credibilità. Nel primo caso, le parole risultavano più credibili. Un trucco che alcuni imbonitori e truffatori utilizzano ancora oggi per sedurre il prossimo.
Le parole seducono. E pronunciarle con l’accento convenzionalmente ritenuto superiore le rende ancora più seducenti. Quasi ipnotiche. Per quanto ci costi ammetterlo, viviamo ancora in un mondo avvolto da magia e irrazionalità.
Fonte: Heiler, F., 2016, La preghiera. Studio di storia e psicologia delle religioni, Morcelliana, Brescia, pp. 212-217