Scrive l’antropologo Arjun Appadurai:
Nel corso degli ultimi vent’anni il peso dell’immaginazione e della fantasia è notevolmente cambiato, e precisamente nella misura in cui il processo di de-spazializzazione delle persone, delle rappresentazioni e delle idee ha acquisito nuova forza. In tutto il mondo sempre più persone considerano la propria esistenza nell’ottica di possibili forme di vita proposte dai mass-media in tutti i modi immaginabili. Questo significa che la fantasia è oggi diventata una prassi sociale; è in innumerevoli varianti il motore della configurazione della vita sociale di molte persone in società di vario tipo. […] anche l’esistenza più miserabile o quella più disperata, le condizioni più brutali e disumane, la peggiore ingiustizia sperimentata, sofferta, vissuta sono oggi aperte al gioco dell’immaginazione – prigionieri politici, bambini che lavorano, donne che sgobbano nei campi e nelle fabbriche di questo mondo. […] il nuovo potere che l’immaginazione ha acquisito nella produzione della vita sociale è indissolubilmente legato a rappresentazioni, idee e situazioni che vengono da altrove. […] Perciò un’affermazione dell’identità culturale legata al luogo è un azzardo pericoloso (Arjun Appadurai, cit. in Ulrich Beck, 2003, La società cosmopolita, Il Mulino, Bologna, pp. 114-115).
Quanto è importante l’immaginazione per le nostre vite di soggetti della società contemporanea? Quanto incide la fantasia sul modo in cui ci rappresentiamo il mondo? Le immagini mediatiche che introiettiamo insieme al cibo in ogni singolo momento delle nostre esistenze istituiscono i valori, le mete, le aspirazioni, gli standard di pulizia e decenza, di accettazione e repulsione a cui informiamo la nostra condotta sociale.
Pensiamo ai migranti che attraversano il pianeta spinti da rappresentazioni mutuate dai media mondiali; agli adolescenti che costruiscono i loro sogni adattandoli dai tanti mezzi di comunicazione social e di massa a cui sono esposti; a chi si converte a una religione dopo aver assistito a un evento in mondovisione (come si diceva un tempo).
È tutto un incrocio di immagini, filmati, icone che scorrono nelle nostre teste, soppiantando spesso le esperienze reali, condannate per principio proprio perché troppo reali e insufficienti al cospetto di quello che l’immaginazione sa darci e che spesso, come diceva Jean Baudrillard, è più vero del vero.
Come dice Appadurai, ognuno di noi è mosso da idee e situazioni che vengono da altrove, ma che, una volta entrate nelle nostre teste, non avvertiamo più come distanti o inarrivabili. È il paradosso della globalità esistenziale: il lontano può essere per noi più vicino del fisicamente vicino; il vicino può essere più invisibile del lontano e distante.
Solo che raramente ci soffermiamo a meditare su questo paradosso e continuiamo a vivere come se la vita fosse semplice e lineare.