La storia del villaggio turistico, come quella di altre formule turistiche di successo, vanta ormai una sua mitologia, non disgiunta da un elemento di casualità. Il suo ideatore è, di solito, identificato nel commerciante belga Gérard Blitz, il quale ebbe l’intuizione di creare un campo di tende in Toscana nel quale offrire una vacanza sportiva all’aria aperta. Questa idea, apprezzata dai turisti, diede origine al Club Méditerranée, di cui Blitz era socio fondatore, che aprì il suo primo villaggio il 5 Giugno 1950 nella baia di Alcudia, sull’isola di Maiorca, nelle Baleari (Garibaldi, 2006; Gulotta, 2033).
A partire dagli anni Sessanta, il villaggio turistico conosce un enorme successo, che continua ancora oggi, e che vede impegnati operatori celebri come Valtur, il Ventaglio, Club Vacanze, Robinson. Progressivamente, alle tende e alle capanne si aggiungono i bungalow, ma anche appartamenti e piccole ville. Le attività proposte diventano sempre più variegate e su misura, il personale sempre più specializzato, l’offerta sempre più ricca e articolata, i luoghi geografici sempre più disparati.
Da un punto di vista sociologico, il villaggio turistico si configura come uno «spazio sociale creato ad hoc» (Gulotta, 2003, p. 218) che sorge in una sorta di zona extraterritoriale e che tende a proporsi come “socialmente autarchico”, anche se ovviamente ognuno è libero di uscire dai suoi confini. In esso, la vita ordinaria subisce una sospensione: il turista dimentica gli affanni dell’esistenza quotidiana, abbandona momentaneamente il lavoro e, forte della formula all inclusive (che permette di fruire di tutta una serie di servizi già compresi nel prezzo pagato in anticipo) non deve preoccuparsi di nulla dal momento che di tutto – dal cibo al divertimento, dall’alloggio alle attività da svolgere nel corso delle giornate – si occupano altri.
Nel villaggio la vita è più semplice: la socializzazione è facile, anche grazie alla temporanea abolizione delle differenze di ceto, classe e professione, spesso rappresentata da una sorta di imposizione del “tu” a ogni rapporto interno al villaggio. Al tempo stesso, il villaggio crea un contesto protetto e rilassato, tendenzialmente passivizzante, in cui persino il denaro viene revocato e rimpiazzato da braccialetti, palline o gettoni. I normali rapporti economici sono momentaneamente, seppure illusoriamente, accantonati. Le competenze e abilità ordinarie non hanno più alcuna importanza: è più importante saper ballare e cantare che redigere un atto notarile o riparare un tubo che perde.
Sono abolite anche le gerarchie d’età. Sono gli animatori, di solito giovani, a farla da padrone. La loro volontà si impone a tutti – giovani e vecchi – e nessuno può reclamare diritti speciali in virtù della propria anzianità. Al tempo stesso, è tendenzialmente bandita ogni timidezza e l’introversione cede il passo all’estroversione, anche grazie alle pressioni in tal senso di animatori e ospiti del villaggio.
Ciò, tuttavia, non significa che non vi siano regole. Al contrario, la vita del villaggio è densamente scandita da regole esplicite e implicite di ogni tipo; regole talmente avvolgenti e imperative che la loro trasgressione viene avvertita come un tradimento della vita comunitaria. Dalle prime ore del mattino alle ultime della notte, il tempo del turista è fatto rientrare in un preciso calendario di attività a cui si è liberi di aderire, ma che condizionano le esistenze dei villeggianti, anche dei più riottosi e timidi, in maniera significativa. La vita del villaggio è dominata da una maniacale ritualità giornaliera che, forse, troveremmo insopportabile nella vita quotidiana, ma che, in ambito turistico, viene vissuta come un gioioso e passivizzante trasporto verso il divertimento. Esistono anche riti di passaggio, come il cocktail di benvenuto e lo spettacolo del fine settimana, a testimonianza del fatto che la dimensione sociale del villaggio è totalmente distinta da quella della vita ordinaria e richiede precise modalità di ingresso e di uscita. Esistono, infine, regole di condotta e precisi divieti che disciplinano in modo rigoroso la vita di villaggio, configurando forme di devianza comportamentale particolarmente odiose.
Non significa nemmeno che non vi siano gerarchie. La struttura del villaggio è dominata da una precisa organizzazione che vede al vertice il capovillaggio, sotto cui ci sono i capi del servizio sportivo e dell’animazione, sotto cui troviamo gli animatori, gli istruttori, i bagnini ecc. Di questa gerarchia, però, il turista ha una consapevolezza solo parziale. Il mondo in cui vive per una, due o più settimane è un mondo magico in cui tutto ciò che viene desiderato si materializza improvvisamente, quasi dietro non vi fossero lavoro, fatica e, appunto, organizzazione.
I motivi del successo sono anche motivi di critica per alcuni. La dimensione compensativa ed evasiva del villaggio serve a consentire all’ospite di “ricaricare le batterie” in vista del suo rientro nella società alienata e si rivela, in ultima analisi, funzionale a quest’ultima. L’abbandono di status e ruoli ordinari è solo un’illusione che ribadisce la loro forza. L’assoluta apoliticità e spensieratezza della vita di villaggio serve a sopprimere ogni anelito alla critica e al cambiamento dell’esistente, sostituiti dal desiderio infantile di divertirsi. In definitiva, il villaggio sortisce un effetto narcotizzante sulle coscienze. Ogni velleità di pensiero critico trova in esso il proprio nirvana. Nessuno mette in discussione norme e istituzioni della propria società a cui ci si riconsegna “ricaricati”, pronti a subire ulteriori dosi di alienazione. Inoltre, dietro la giocosa informalità apparente della vita di villaggio si celano i medesimi ritmi lavorativi che sottendono la vita quotidiana dei villeggianti, di cui, però, questi ultimi colgono solo il prodotto finale, obliando forme e strutture del lavoro organizzativo che sostiene quel prodotto.
Per quanto possa sembrare bizzarro, paradossale o straniante, il villaggio turistico presenta una organizzazione sociale che offre caratteristiche affini alle istituzioni totali descritte dal sociologo canadese Erving Goffman (1922-1982) nel suo celebre Asylums (1961).
Qui un mio breve saggio su questa insospettabile affinità che getta una luce inquietante su una delle soluzioni turistiche più appetite da chi è in cerca di svago.