Sullo sfondo delle polemiche suscitate dall’introduzione del VAR nel campionato di calcio italiano 2016-2017, campeggia una contrapposizione netta che sta sempre più penetrando nel senso comune, arroccandolo su una posizione parziale, se non falsa. In breve, il calcio prima del VAR sarebbe caratterizzato da una profonda soggettività da parte dell’arbitro, spesso responsabile di decisioni gratuite e al limite della malafede (se non proprio a favore di determinate squadre). Il calcio dopo il VAR sarebbe, al contrario, caratterizzato dal trionfo dell’oggettività in virtù di “macchine” che consentirebbero una interpretazione più reale di quanto accade in campo. La contrapposizione prima-e-dopo-il-VAR o soggettività-oggettività è talmente pervasiva che già qualcuno etichetta come “falsi” i risultati conseguiti nei campionati prima dell’arrivo del Video-Assisted Referee e “veri” quelli che saranno conseguiti da questa stagione calcistica in poi.
La contrapposizione è però inattendibile. Se il calcio prima del VAR era effettivamente vincolato alla soggettività arbitrale, il calcio dopo il VAR appare anch’esso dipendente da valutazioni soggettive. È infatti l’arbitro a decidere se e quando ricorrere al VAR ed è sempre l’arbitro a decidere quale interpretazione dare all’esito della “macchina”: due situazioni evidentemente assai suscettibili di soggettività. Non a caso alcuni commentatori hanno lamentato il mancato ricorso al VAR in alcune partite di questo inizio campionato e interpretazioni discordanti a fronte di episodi simili. Naturalmente, ciò non significa che il VAR sia inutile, né che dovremmo ritornare al calcio di un tempo. Significa solo essere consapevoli dei limiti dello strumento e della presenza (ancora) ineliminabile della decisione soggettiva.
A ciò è da aggiungere che la stessa moviola non restituisce certo una percezione oggettiva di quanto lascia vedere, come è ovvio dalle mille polemiche che hanno sempre accompagnato la consultazione di questo oracolo degli sportivi e anche, recentemente, da alcune indagini sperimentali che hanno messo in luce come la slow motion favorisca determinate forme di percezione a scapito di altre. Un’interessante ricerca di Caruso, Burns e Converse, pubblicata su PNAS nel 2016, e condotta su 1.610 soggetti ha rivelato, infatti, che vedere un’azione al rallentatore fa sì che gli osservatori tendano a percepire l’azione osservata come più intenzionale di quanto non appaia a velocità normale. Questa “propensione” percettiva, riscontrata sia in ambito giudiziario sia in ambito sportivo, si verifica, in parte, perché la ripresa al rallentatore induce negli osservatori la sensazione che gli attori abbiano più tempo per agire, anche se gli osservatori sono perfettamente a conoscenza di quanto tempo sia effettivamente trascorso. Un altro esperimento, condotto su 2.737 soggetti dagli stessi autori, ha rivelato che permettere agli osservatori di vedere un’azione sia a velocità normale sia al rallentatore attenua questa propensione, ma non la elimina. Insomma, c’è qualcosa nella moviola che distorce la nostra percezione, anche se non ce ne rendiamo conto. Le nostre conoscenze in materia si reggono su una serie di assunti taciti su come funziona la percezione umana che possono avere conseguenze letali in ambito giudiziario (ad esempio, dopo aver visto il video di una rapina al rallentatore, possiamo attribuire una maggiore “malevolenza” all’azione del rapinatore) e meno pericolose in ambito sportivo. Di sicuro, questo genere di ricerche ci invita a non avere una fiducia cieca nella oggettività delle macchine perché siamo sempre noi a interpretarne gli esiti sulla base della nostra (poco oggettiva) percezione.