Nel mio libro Turpia, ho affrontato il tema del turpiloquio politico, in auge presso movimenti e partiti di ispirazione populista allo scopo di contrapporre il linguaggio “semplice e diretto del popolo” a quello verboso e inconcludente dei politici di professione, accusati di “vendere fumo”. In quella sede, facevo notare che, in realtà, il turpiloquio, pur molto terreno e concreto, è solo un altro modo di “vendere fumo” anche se gli elettori accreditano i politici più beceri di “dire pane al pane e vino al vino”. Il turpiloquio politico svolge poi una serie di funzioni sociali spesso sottovalutate e screditate, ma molto attive nella nostra epoca di crisi “a basso continuo”. Ho trovato conferma di questa mia intuizione nell’interessante ricerca dell’antropologa francese Lynda Dematteo, pubblicata dalla Feltrinelli con il titolo L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, ricerca che costituisce una esplorazione dell’universo simbolico e politico della Lega.
«L’uso della parola “idiota”», spiega la Dematteo, «impone qualche precisazione. Idiota, in senso etimologico, significa “uomo del luogo” ed è un termine la cui radice greca vuol dire “particolare”. Per gli antichi greci idiota era colui che non aveva accesso alla dimensione universale, quello che viveva ancora nella caverna, o meglio, nella sua caverna. Secondo gli ateniesi, i più stupidi erano i loro vicini più prossimi, quelli che abitavano ai margini della polis. Il termine fu appositamente coniato per definire quei soggetti, tuttavia, gli ateniesi sapevano di avere degli “idioti” anche all’interno della loro città: i cinici. Idiota dunque è il soggetto votato alla più irriducibile autoctonia e al ripiego identitario. Quando un simile soggetto valica i confini del prossimo universo culturale, si comporta spesso in modo improprio e grottesco. Preso singolarmente o all’interno della cerchia più o meno ampia dei familiari, nessuno è idiota; i problemi cominciano fuori, quando si passa da un universo simbolico noto a un universo poco, o per nulla, conosciuto» (pp. 16-17). Questo spiega perché il leghista è un idiota: per la sua irriducibile tendenza a non aprirsi all’esterno e a ripiegarsi sulla propria identità provinciale, anche a costo di reinventarla da capo e falsare la storia, come dimostra la vicenda dell’invenzione della Padania.
La Dematteo si sofferma sulle funzioni del ricorrere ossessivo del turpiloquio nei discorsi di Bossi e dei suoi sodali, di cui evidenzia la sottile importanza. I membri della Lega ricorrono al turpiloquio per affermare e confermare la loro identità di “puri e duri”. Si può quasi dire che il turpiloquio strutturi la loro identità oppositiva a ciò che è avvertito come italiano o straniero. Come afferma l’antropologa francese, in riferimento all’ala bergamasca del movimento, «se nei loro discorsi figura spesso “cazzo”, le parolacce bergamasche assumono la funzione di veri e propri emblemi identitari. Nel gergo maschile il termine più frequente è “pota”. Anche le imprecazioni bergamasche sono molto adoperate. Il segretario provinciale saluta spesso i suoi interlocutori con “ù figù” prima di lanciarsi in argomentazioni esuberanti. Questa espressione è particolarmente volgare, le donne non la usano e si evita di impiegarla in loro presenza. Le parolacce bergamasche sono considerate più volgari di quelle italiane. Le bestemmie in dialetto permettono agli uomini di manifestare la loro virilità e la loro insubordinazione al clero. Queste trasgressioni linguistiche non sono dirette contro quelli che si sottomettono alle regole, ma contro la dominazione stessa. I “puri e duri” non hanno a che fare con le norme linguistiche italiane ma, attraverso il loro linguaggio, affermano la loro indipendenza di spirito e la loro superiorità nordista. Non potrebbero sottomettersi alle regole grammaticali senza umiliare se stessi di fronte al terùn» (p. 140).
Le parolacce “politiche” della Lega svolgono altre due funzioni, oltre a quella identitaria: una funzione compensativa e una catartica. Ancora la Dematteo: «I leghisti cercano di fare della volgarità – per essenza un antivalore – un valore vero e proprio. In realtà, questa ribellione linguistica è falsa poiché, quando ergono a simboli identitari le parolacce in bergamasco, i militanti non fanno che convalidare gli stereotipi che denunciano altrove. Esprimendo collera, indignazione, disprezzo e rimandando al corpo e alle sue funzioni più “basse”, le parolacce degradano chi le pronuncia ancor più del bersaglio cui sono indirizzate. Attraverso un “paradossale raddoppiamento”, che è uno degli effetti del dominio simbolico, riaffermano, a loro spese, la gerarchia che struttura socialmente il linguaggio. È davvero indicativo che Daniele Belotti saluti i suoi interlocutori con “ù figù”. La “figa” è il non valore, il simbolo che racchiude ogni tipo di debolezza, passività, alienazione. È di fronte alla “figa” che il soggetto proclama una volontà di potenza alienata e contestata in ogni ambito. L’insulto rende evidente l’impotenza del debole rispetto al forte. La cacofemia popolare – svalorizzando delle cose attraverso la volgarità – è cosa nota, è l’espressione di una volontà umiliata […] Questa aggressività verbale compensa il sentimento d’impotenza che gli eletti della Lega sperimentano nella sfera amministrativa. Le parolacce hanno un’innegabile funzione catartica» (pp. 143-144).
Sarebbe sbagliato, dunque, limitarsi a condannare il turpiloquio della Lega come semplice “scostumatezza” o “volgarità”: le parolacce della Lega svolgono importanti funzioni identitarie, compensative e catartiche in ambienti politici per il resto poveri di un vero contenuto innovatore. È necessario studiarle perché ci dicono qualcosa sui nostri tempi “idioti” che, spesso, suppliscono alla mancanza di idee e ideali con la presenza invadente e opprimente di retorica, cinismo e identità surrogate. Si potrebbe quasi dire che quello della Lega sia un modello di azione. Se ti senti frustrato e umiliato e non sai neppure tu perché, insulta ed eleggi un capro espiatorio (meridionali, stranieri ecc.) e prima o poi qualcuno ti seguirà. Soprattutto se i tuoi insulti e il tuo turpiloquio sono ripetuti di continuo e travestiti da programma politico. Ridondanza del vacuo e contraffazione del vero sono le ricette comunicative del politico di oggi (non solo leghista). Condite da una voce fastidiosamente becera e dalla presunzione di parlare a nome del “popolo” e del “territorio” (qualsiasi cosa significhino queste due parole). Il turpiloquio diventa allora spia, indicatore, segnale di allarme e di “idiotismi”. Utile non a condannare, ma a capire. Affinché gli “idioti” perdano la loro “idiozia” ed escano dalla loro caverna platonica.
Lettura molto interessante da vero studioso della sociologia politica. Complimenti.