Scritto in piena epoca proibizionistica, nel 1925, l’articolo del medico americano Robert Schless “Il tossicomane” (titolo originale: The Drug Addict) rappresenta ancora oggi, nonostante i profondi cambiamenti intervenuti nel sistema mondiale della droga, un testo estremamente utile e godibile per la critica lucida con cui smonta, da vero myth-buster, vari luoghi comuni vischiosi sulla droga, ancora oggi acriticamente propagati.
Pensiamo al mito del “tossico” come «povero disgraziato tremante e con lo sguardo allucinato, che sobbalza a ogni nonnulla» o, in termini contemporanei, come giovane marginale ciondolante dagli occhi semichiusi con una perenne sigaretta in mano, reso celebre da film e macchiette televisive: quanti di noi sanno che il tossicomane è spesso una persona tranquilla, marito/moglie esemplare e fedele, professionalmente coinvolto/a nel suo lavoro e perfettamente integrato/a nella società? La forbice tra rappresentazione sociale del “tossico” e la realtà sociale della tossicodipendenza è enorme, tanto che continuiamo a fare riferimento, nella nostra immaginazione, a raffigurazioni fruste e stereotipate, segno della nostra profonda ignoranza del fenomeno, a cui contribuiscono certamente le politiche proibizionistiche che, tra i tanti effetti diretti e indiretti, hanno anche quello di “proibire” una conoscenza adeguata del fatto sociale “droga”.
Altro mito denunciato da Robert Schless, ancora oggi condiviso, è quello del tossicomane-delinquente; mito associato, all’epoca, a quello del “negro stupratore” e del “sudamericano aggressore e omicida”. In realtà, fa presente Schless, se il tossicomane commette reati, questi sono, per lo più, legati alla necessità di procurarsi la sostanza di cui ha bisogno, non a una intrinseca istigazione della droga a compiere atti criminali. Anzi, alcuni crimini, come gli stupri, sono impediti proprio dall’azione delle droghe: perché le passioni sessuali dei tossicomani «e perfino le loro funzioni sessuali, sono totalmente spente quando [essi] sono “fatti”». L’implicazione è che i reati commessi da chi fa uso di droghe sono una conseguenza indiretta delle politiche protezionistiche che impediscono l’accesso ad esse per via ordinaria. Se tali politiche venissero meno, molti reati verrebbero meno con loro.
Schless mette in discussione anche l’assunto di senso comune secondo cui le droghe provocherebbero sempre e comunque danni irreparabili all’organismo. Sono più dannosi – obietta il medico americano – gli effetti dell’alcool, che non regrediscono nemmeno se si diventa astemi. I narcotici, invece, una volta ridotto o eliminato l’uso, consentono di tornare a una vita normale, senza eccessivi o duraturi patemi fisici.
Il contenuto più rilevante dell’articolo di Schless è, però, sicuramente l’atto di accusa rivolto senza peli sulla lingua all’Harrison Act, la legge che, nel 1914, introdusse di fatto il proibizionismo relativo alle droghe in America, ritenuto responsabile della maggior parte dei casi di tossicomania degli Stati Uniti dell’epoca: una legge che trasformava il consumatore di droga in un malato e in un criminale e che rendeva chi vendeva la droga uno “spacciatore”, con il conseguente processo di stigmatizzazione negativa che accompagna tali fenomeni di trasformazione, aprendo la strada a un mondo sotterraneo di illegalità che soddisfa la domanda persistente di droga aumentando a dismisura i costi dei beni scambiati, a tutto rischio e pericolo di consumatori e venditori.
Come è evidente, sono tanti gli argomenti di interesse di questo piccolo, grande saggio di sociologia della droga che qui propongo, per la prima volta a mia conoscenza, in traduzione italiana. Un testo estremamente attuale e sul quale mi propongo di tornare con una corposa introduzione. Nel frattempo, buona lettura!