Il gap esistente tra il senso comune penale e il concreto funzionamento del sistema di giustizia penale è estremamente elevato. Per dirla in altri termini, l’uomo della strada possiede nozioni profondamente distorte di come funziona, ad esempio, l’ordinamento penitenziario e non è certo aiutato da chi si occupa di informazione per mestiere, se si pensa che sono spesso proprio i giornalisti a interpretare gli eventi che ricadono nella cronaca nera in maniera non corretta, alimentando fraintendimenti e sensazionalismi.
Tre esempi, fra i tanti possibili, illustreranno le dimensioni di questo gap.
Sebbene l’art. 27 della nostra Costituzione affermi recisamente che “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”, la maggior parte delle persone è convinta che l’unica funzione del carcere debba essere quella retributiva o punitiva e che, se un individuo è condannato a, diciamo, otto anni di reclusione, debba scontarli tutti in prigione fino all’ultimo giorno. Ogni deviazione da questo modello retributivo viene avvertita come sconcertante, ignobile, scandalosa e suscita indignazione nei benpensanti. Nel senso comune penale, non esistono misure alternative alla detenzione, differimento della pena, sanzioni sostitutive, così che, se un detenuto “esce” in detenzione domiciliare, avendone tutti i requisiti, è come se fosse “messo in libertà” e non scontasse in pieno la sua pena. Eppure, le misure alternative alla detenzione sono in vigore dal 1975!
Gli stessi giornalisti rafforzano l’equivoco, parlando di detenuti liberati o scarcerati, senza chiarire che cos’è la detenzione domiciliare e quali sono le condizioni per ottenerla.
Chi sa, infine, che, secondo le ultime tendenze, il carcere è probabilmente destinato a essere solo l’extrema ratio a favore delle cosiddette misure penali di comunità e della cosiddetta giustizia riparativa?
Un altro equivoco in cui ci si imbatte spesso è la confusione tra “arresti domiciliari” e “detenzione domiciliare”. Gli arresti domiciliari sono una misura cautelare personale, coercitiva e custodiale, disciplinata dall’art. 284 del codice di procedura penale destinata agli imputati, ossia a persone non ancora riconosciute definitivamente colpevoli, e vengono inflitti quando sussistono gravi indizi di colpevolezza o esigenze cautelari.
La detenzione domiciliare, invece, come detto è una misura alternativa alla detenzione, prevista dall’ordinamento penitenziario, che viene concessa alle persone condannate in via definitiva, se sussistono determinate condizioni soggettive e oggettive (ad esempio, se si è donne incinte o madri di figli di età inferiore ai dieci anni, se si hanno 70 anni, se si è malati gravemente, se restano da scontare quattro anni di reclusione ecc.).
Si tratta di due istituti profondamente diversi, che però vengono confusi pervicacemente, anche da giornalisti e presunti esperti. Un abominio che non si riproverà mai abbastanza.
Infine, un altro luogo comune vuole che l’ergastolano debba rimanere tra le mura penitenziarie fino alla morte, senza alcuna speranza di uscire. Chi crede che le cose stiano così dovrebbe però ricredersi. Ad esempio, secondo l’ordinamento penitenziario, l’ergastolano ha diritto, se sussistono le giuste condizioni, ad usufruire di permessi premio o del lavoro esterno dopo aver scontato dieci anni di reclusione, a godere della semilibertà dopo venti e della libertà condizionale dopo 26. Come? Un ergastolano (semi)libero? Anche qui il benpensante grida allo scandalo (insieme al giornalista), ma il suo scandalo è frutto di ignoranza.
Ancora una volta, una giusta informazione potrebbe fare molto per colmare il gap di cui sopra. Eppure, che speranze abbiamo se proprio coloro che dovrebbero aiutare in questa azione sono i primi a cedere a disinformazioni ed equivoci?