Ci sono almeno tre buoni motivi per leggere i testi di John Itsuro Kitsuse (1923-2003), raccolti da Cirus Rinaldi in Il potere della definizione. Saggi di sociologia radicale (PM Edizioni, Varazze [SV], 2020). Innanzitutto, si tratta di classici della sociologia della devianza riscoperti e tradotti per la prima volta in italiano e si sa che tradurre è un po’ come ridare la vita, soprattutto quando significa introdurre testi in modo familiare in un contesto, quale quello italiano, avvezzo all’inglesorum, ma poco all’inglese. In secondo luogo, perché si tratta di testi che si basano su una prospettiva – quella dell’etichettamento – che in Italia è sempre stata poco considerata sia accademicamente sia praticamente e a cui oggi si preferiscono prospettive attuariali o di prevenzione situazionale, poco interessate ai temi classici della sociologia della devianza, ma molto proficue in termini pratici.
Il nippo-americano John Kitsuse dedicò la sua vita a (relativamente) poche tematiche di ricerca tutte estremamente interessanti: l’etnia, la devianza come processo reattivo, i devianti come prodotti da “serializzazione istituzionale”, la costruzione dei problemi sociali. In particolare, mostrò attenzione nei confronti delle pratiche amministrative che le diverse agenzie istituzionali mettono in atto per costruire il deviante, renderlo un dato docile al trattamento amministrativo, componendo al tempo stesso un tipo morale serializzato con conseguenze pratiche e morali di tutto rilievo.
Come afferma Rinaldi nella introduzione ai testi, Kitsuse abbraccia «un’analisi della devianza del tutto epurata da ogni residualità oggettivista e si concentra sullo studio delle definizioni sociali che attribuiscono caratteristiche devianti a soggetti e a gruppi e sulle modalità attraverso le quali queste stesse definizioni si traducono sul piano delle reazioni sociali in seguito alle quali determinate persone vengono individuate e trattate come devianti. L’analisi di Kitsuse si rivolge pertanto radicalmente ai processi definitori della reazione sociale intesi già come elementi costitutivi della devianza medesima».
La prospettiva di Kitsuse è riassumibile nelle seguenti parole:
Pertanto, un problema decisivo per la teoria e la ricerca nell’ambito della sociologia della devianza può essere formulato nel modo seguente: quali sono i comportamenti considerati devianti dai membri del gruppo, della comunità o della società, e in che modo quelle definizioni organizzano e attivano le reazioni sociali attraverso le quali determinate persone vengono individuate e trattate come devianti? Formulando il problema in tal modo, il punto di vista di coloro i quali interpretano e definiscono un comportamento come deviante deve essere integrato esplicitamente in una definizione sociologica della devianza. In modo analogo, la devianza può essere concepita come un processo attraverso il quale i membri di un gruppo, di una comunità o di una società 1) interpretano un comportamento come deviante; 2) definiscono le persone che si comportano in tal modo come devianti di un particolare tipo e 3) riservano loro il trattamento considerato appropriato per tali casi di devianza.
Kitsuse è anche interessato a come le agenzie istituzionali creino amministrativamente e statisticamente il deviante attraverso procedure apparentemente neutre. L’analisi critica delle stesse rivela che le statistiche sulla criminalità non sono necessariamente uno specchio fedele della realtà; possono invece riflettere le procedure e le ideologie di chi le produce.
L’articolo più rilevante al riguardo (e tradotto da me all’interno di Il potere della definizione) è Kitsuse, John I., Cicourel, Aaron V. (1963). “A Note on the Uses of Official Statistics”. Social Problems, vol. 11, n. 2, pp. 131-139 (qui per la versione originale).
Ecco le parole cardine dell’articolo:
L’ipotesi che ci guida è che i tassi relativi al comportamento deviante siano il risultato delle attività di determinate persone che, nel sistema sociale, definiscono, classificano e registrano determinati comportamenti come devianti. Se un certo comportamento non è ritenuto deviante da tali persone, non appare come dato statistico in una qualunque serie di percentuali che intendessimo spiegare (per esempio, le statistiche delle agenzie locali di pubblica assistenza, “i reati noti alla polizia”, gli Uniform Crime Reports, gli archivi dei tribunali ecc.). Le persone che definiscono e attivano le procedure da cui scaturiscono i tassi di criminalità vanno dal vicino “ficcanaso” ai funzionari delle forze dell’ordine . Da questo punto di vista, il comportamento deviante è quel comportamento che, a fini amministrativi, è definito, elaborato e trattato come “strano”, “anormale”, “predatorio”, “delinquente” ecc. da parte di quelle persone che, nel sistema sociale, hanno prodotto quel tasso. Secondo queste definizioni, una teoria sociologica della devianza dovrebbe occuparsi di tre questioni esplicative, tra loro interrelate: (1) come diversi tipi di comportamento possano essere definiti devianti da vari gruppi o organizzazioni sociali, (2) come gli individui che esibiscono questi comportamenti vengano classificati, da un punto di vista amministrativo, in modo da generare tassi di comportamento deviante nei vari strati della popolazione, e (3) come atti che sono definiti, formalmente o informalmente, devianti siano generati da fattori quali l’organizzazione familiare, le incongruenze di ruolo o le “pressioni” delle circostanze.
Le riflessioni di Kitsuse «diventano esemplificative di come gli schemi di codifica e quelli interpretativi svolgano un ruolo significativo all’interno dell’organizzazione sociale della conoscenza. Le organizzazioni formali e le culture professionali esperte sono in grado di offrire «caratterizzazioni proverbiali» e rappresentazioni sociali degli individui con cui hanno a che fare o con i quali potrebbero averne, sino a definire tipologie attese, prefigurate, normali, plausibili, «reati normali». La produzione delle statistiche sociali diventa di per sé oggetto di ricerca che riflette le pratiche e gli interessi organizzativi delle agenzie del controllo sociale. A differenza degli approcci normativi, l’analisi costruzionista guarda ai dati statistici non per scoprire modelli causativi del crimine ma piuttosto per comprendere i processi di causazione delle statistiche medesime» /Cirus Rinaldi).
È questo il punto di vista che trovo più interessante in Kitsuse e che è estremamente attuale in un’epoca come la nostra che ha un rapporto ciecamente fideistico nei confronti del dato statistico. Ciò è evidente, in occasione della recente pandemia da Covid-19, dalla feticizzazione paranoica dei dati relativi al numero di contagiati e morti da virus, nonostante la parzialità più volte proclamata di tali dati. La dulia che prestiamo ai big data e a tutto ciò che viene reso sotto forma di grafico, diagramma, powerpoint è il segno che le parole di Kitsuse sono del tutto valide e che impongono uno sguardo critico che abbiamo bisogno di recuperare. E questo è il terzo motivo per cui vale la pena leggere gli scritti di John Itsuro Kitsuse.