È dei giorni scorsi la notizia dell’arresto di quello che è ritenuto il responsabile del grave incendio che ha distrutto 10.000 metri quadrati di Parco nazionale del Vesuvio il 14 luglio scorso. Si tratta di un uomo di 24 anni di Torre del Greco, di mestiere macellaio, già noto alle forze dell’ordine per precedenti reati predatori e detenzione di armi. Cinque anni fa, il giovane tentò inutilmente di portare via dei cavi di rame da una stazione e a suo carico figura anche una denuncia per simulazione di reato. I giornali hanno dato ampio risalto alla notizia, come si può vedere qui e qui. Ciò che più colpisce è che tutti gli organi di informazione sono concordi nel definire l’accusato “piromane”. Il Mattino sottolinea il fatto che il giovane sarebbe ossessionato dalle fiamme e che questa sua ossessione avrebbe messo in pericolo perfino la sua abitazione. La stessa testata azzarda anche una interpretazione in chiave psicopatologica: il suo sarebbe il “gesto sconsiderato di un folle” (luogo comune molto diffuso presso i giornalisti). Questa interpretazione sarebbe avvalorata da una intercettazione telefonica in cui l’accusato viene definito uno che “non ci sta con la testa”. In attesa degli sviluppi (per usare un altro luogo comune giornalistico), alcune considerazioni.
Quali sono le ragioni o le circostanze che spingono ad appiccare un incendio? Stando ai rapporti ecomafia di Legambiente, in termini di colpa, le ragioni principali sono l’imprudenza, la negligenza e la disattenzione. In termini di dolo, invece, uno dei motivi principali è il tentativo di ottenere vantaggi economici. Ciò avviene, ad esempio, quando si vuole riscuotere un’assicurazione; quando si intende creare dei terreni coltivabili e di pascolo a danno del bosco; quando si bruciano dei residui agricoli; quando si intende ripulire il terreno in vista della semina; quando si vuole trasformare un terreno rurale in un terreno edificabile; quando si vogliono creare posti di lavoro; quando si vuole approvvigionarsi di legna o risanare il bosco. Un altro motivo è la volontà di occultare un’attività illecita (dissimulare un reato bruciando tutto). Altri possibili motivi sono la vendetta, il rancore, la protesta e il vandalismo. Tutte ragioni, come è evidente, perfettamente razionali, per quanto detestabili.
Appiccare un incendio è un reato non di poco conto. Ogni incendio comporta conseguenze per l’ecosistema: frane, smottamenti, lunghi tempi di riassetto, inquinamento, perdita del patrimonio forestale. Ciò che colpisce e mistifica il lettore di quotidiani o lo spettatore dei telegiornali è, però, l’etichetta che stampa e media in generale utilizzano per riferirsi agli autori di queste condotte criminali: la parola “piromane”. Così adoperato, il termine è profondamente fuorviante perché fa pensare che tutti gli incendiari di cui si parla nei titoli giornalistici siano afflitti da una qualche turba psichica e agiscano in base a incomprensibili, quanto irresistibili, impulsi antisociali. Piromane è, infatti, un termine coniato nell’Ottocento in ambito psichiatrico per descrivere un individuo affetto da una mania. L’inventore del termine è il francese C.C.H. Marc il quale parlò per la prima volta di “monomania incendiaria” o “piromania” nel 1833 per riferirsi soprattutto a «fanciulle di campagna, frustrate sessualmente, o uomini anziani alla fine della vita sessuale». Al giorno d’oggi il concetto continua a essere usato in psichiatria tanto da comparire anche nell’ultima versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), la “bibbia” degli psichiatri di tutto il mondo.
La realtà, però, è che il piromane appare una figura relativamente marginale nell’ambito della fenomenologia incendiaria. Se esaminiamo le sue caratteristiche e le poniamo a confronto con quelle della stragrande maggioranza degli incendiari che ogni estate deturpano il patrimonio boschivo del nostro e di altri paesi, emerge chiaramente che questi agiscono per lo più in base a ragioni perfettamente razionali e non psicopatologiche. Incontrare “veri” piromani è una circostanza abbastanza rara, perfino per gli stessi psichiatri. Non a caso, sin dalla creazione del termine, molti studiosi ne hanno dichiarato l’inutilità concettuale, chiedendone la rimozione dal novero dei disturbi psichici.
È, dunque, estremamente fuorviante parlare di “piromani che appiccano incendi”. Nella maggior parte dei casi, si tratta di criminali che deliberatamente, per motivi razionali, decidono di incendiare boschi e montagne. In piccola parte, di individui negligenti o distratti. In piccolissima parte, infine, di persone con un comportamento psicopatologico. Non si può confondere la parte con il tutto. Ma questo, giornali e media sembrano dimenticarlo costantemente. Anche perché, forse, “piromane” fa più audience di “incendiario”.
Per saperne di più su altri miti della criminalità, rimando al mio Delitti. Raptus, follia e misteri. Dalla cronaca alla realtà.