Presso politologi e opinionisti si avverte talvolta la tentazione di squalificare il nazionalismo, riducendolo a superstizione barbara di epoche passate o ad atteggiamento al più utile per tifare per la squadra di calcio della propria nazione.
In un’epoca iperglobalizzata come la nostra, il nazionalismo può apparire effettivamente come un relitto ottocentesco, un detrito di un tempo dedito a una ottusa difesa dei propri confini, un ostacolo alla fratellanza mondiale, a una configurazione politica in cui non si vive più come cittadini dell’Italia, del Brasile o della Polonia, ma come cittadini del mondo.
Eppure, ieri come oggi, il nazionalismo continua ad assolvere una funzione importante, per quanto forse discutibile. Lo mise in evidenza nel XVIII secolo il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (1744 – 1803), autore di celebri riflessioni sulla storia dell’umanità.
Federico Chabod attribuisce a Herder addirittura l’invenzione del termine “nazionalismo” e ricorda alcune sue parole al riguardo: «Lo si chiami pure pregiudizio, volgarità, limitato nazionalismo, ma il pregiudizio è utile, rende felici, spinge i popoli verso il loro centro, li fa più saldi, più fiorenti alla loro maniera e quindi più felici nelle loro inclinazioni e scopi».
E ancora: «La nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l’epoca delle immigrazioni di desideri stranieri, dei viaggi di speranze all’estero è già malattia, pienezza d’aria, gonfiezza malsana, presentimento della morte» (cit. in Chabod, F., 1967, L’idea di nazione, Laterza, Bari, p. 48).
Il nazionalismo, dunque, come pregiudizio e ignoranza; ma un pregiudizio e un’ignoranza “utili” a rendere felici i popoli e farli sentire uniti. Un po’ come il calcio: manifestazione irrazionale e volgare, secondo alcuni, in grado di tenere unita un’intera nazione… almeno per il tempo di una partita.