Nel 2012 grande scalpore destarono le dichiarazioni di alcune note personalità secondo cui la crisi economica che attanaglia il mondo sarebbe stata responsabile di un aumento clamoroso dei suicidi tra disoccupati e imprenditori in Italia, i cosiddetti “suicidi per motivi economici”. Sulla scia di queste dichiarazioni, i media resero noti periodici quanto inquietanti “bollettini di guerra” segnalando una “escalation inarrestabile” di suicidi. Fu rievocato lo spettro del grande crollo del 1929. Accorati appelli giunsero dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dal leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro e dal Primo Ministro Mario Monti. Ma si trattò davvero di una ecatombe di suicidi?
Il sociologo Marzio Barbagli, in un’intervista che destò vivaci discussioni, facendo affidamento su dati ISTAT, fece presente che i numeri non autorizzavano alcuna interpretazione catastrofista. Nel 2009 il tasso di suicidio in Italia era 6,6, in linea con gli anni precedenti e tra i più bassi d’Europa. È vero che dal 2008 al 2010 i suicidi erano aumentati (+24,6%), ma erano diminuiti dal 2009 al 2010 (-6%). Insomma, il grande clamore del 2012 si rivelava, per Barbagli, una grossa bolla mediatica. A distanza di qualche anno dai fatti del 2012, l’opinione di Barbagli, pur in assenza di ulteriori dati ISTAT, sembra ancora valida. A conferma, si può citare una stima di Link Lab, il Laboratorio di Ricerca Socio-Economica dell’Università degli Studi Link Campus University, che segnala 89 suicidi per motivi economici nel 2012 (anche se i criteri della stima sono diversi da quelli dell’ISTAT), numero che appare il più basso dal 2005 al 2013 nel contesto di una situazione complessiva che appare stabile.
Perfino paesi come la Grecia, che risentono della crisi economica più dell’Italia, facevano registrare dati non allarmistici nello stesso periodo. Nel triennio 2009-2011, la Grecia riportò un totale di 1727 suicidi e tentati suicidi, una cifra notevolmente inferiore ai suicidi e tentati suicidi verificatisi in Italia nel solo biennio 2019-2010: 12.424! Questi dati minano completamente la convinzione, ormai radicata nel senso comune, che la crisi economica abbia innescato una “corrente suicidogena” senza precedenti. Una convinzione che risale a molto tempo fa, almeno al “grande crollo” del 1929 che, secondo una credenza collettiva ancora fortissima, avrebbe generato una propensione al suicidio in masse di investitori, uomini d’affari e azionisti, mai vista prima. Si pensi che l’attore Will Rogers, che visse durante quell’epoca, commentò: «Quando Wall Street precipitò, bisognava fare la fila per trovare una finestra da cui saltare». I giornali dell’epoca parlarono di pedoni costretti a farsi largo tra decine e decine di cadaveri sparsi sui marciapiedi. Scene di panico, di disperazione e suicidi in quantità industriale. Ma quanta verità c’è in questa ricostruzione? Nessuna secondo l’economista americano John Kenneth Galbraith:
Negli Stati Uniti l’ondata suicida seguita al tracollo del mercato azionario fa pure parte della leggenda del 1929. In realtà, non ci fu. Per parecchi anni prima del 1929 il numero dei suicidi era andato gradualmente aumentando. Esso continuò a salire quell’anno, con un ulteriore incremento, molto più marcato, nel 1930, 1931 e 1932, anni in cui molte altre cose oltre al mercato azionario portavano la gente a concludere che la vita non meritava più d’essere vissuta. Le statistiche riguardanti i newyorkesi, che si potrebbero supporre particolarmente inclini all’autodistruzione, a causa della loro vicinanza al mercato, indicano soltanto una lieve deviazione da quelle riguardanti il paese nel suo insieme (Galbraith J.K., 2013, Il grande crollo, BUR, Milano, p. 121).
Galbraith avanza anche una spiegazione di come sia nato il mito dei suicidi:
Si presume che, come gli alcolizzati e i giocatori d’azzardo, gli speculatori rovinati siano inclini all’autodistruzione. In un momento in cui c’era abbondanza di speculatori rovinati, giornali e pubblico hanno forse dato come scontata la conseguenza. D’altra parte, i suicidi che in altri tempi avrebbero provocato la domanda: “Perché l’avrà fatto?”, ora avevano il motivo assegnato automaticamente: “Pover’uomo, è stato travolto dal disastro”. Infine, bisogna notare che, se i suicidi non aumentarono in modo marcato nei mesi del crollo o nell’intero 1929, il loro numero salì nei successivi anni di depressione. Nella memoria alcune di queste tragedie sono state forse spostate indietro di un anno o due fino all’epoca del crollo della borsa (Galbraith, 2013, op. cit., pp. 122-123).
Insomma, le crisi economiche non sembrano generare necessariamente chissà quali epidemie di suicidi. Anzi, i numeri dei suicidi possono essere anche più bassi del normale in questi periodi. Però dal 1929 a oggi questa credenza si è fortemente radicata nell’immaginario collettivo tanto che scalzarla appare davvero difficile.