Il lavoro nobilita l’uomo

… e lo rende libero (Arbeit macht frei), come motteggiavano grottescamente gli ingressi dei lager nazisti durante la Seconda guerra mondiale. C’è da sospettare, però, che dietro tali formule ripetute fino alla nausea – soprattutto la prima, esente da ogni connotazione nazista – si nasconda qualcosa di ineffabile, che si ha pudore a rivelare apertamente. È curioso, infatti, che un’attività contrassegnata sin dalle sue origini come fatica sgradevole, sforzo abietto, vile necessità sia etichettata come nobilitante. Non sarà che la nobiltà di cui si vanta il noto adagio serva solo una funzione di ipocrita copertura o, meglio, una funzione compensativa, finalizzata a rendere accettabile un qualcosa che accettabile non è, a barattare una occupazione abbrutente, umiliante e deludente con un misero riconoscimento formulaico, che non acquista maggiore verità per il fatto di essere ripetuto all’infinito?

“Il lavoro nobilita l’uomo” – frase la cui paternità molti attribuiscono a Charles Darwin – avrebbe, dunque, per l’essere umano (non solo per gli uomini) lo stesso valore consolatorio di detti come “Sposa bagnata, sposa fortunata” o di celebri profezie bibliche come “Gli ultimi saranno i primi” (Matteo 20, 16). Il conforto che esso dona è un misero palliativo alle sofferenze che da sempre il lavoro procura a uomini e donne. Si tratta di una retorica alleviatrice veicolata dalla ridondante reiterazione di parole che trasformano un significato nel suo contrario, non dissimilmente da quanto accade in 1984 di George Orwell (1903-1950), dove “la pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”. È così che il lavoro diventa nobiltà, che il dolore si converte masochisticamente in valore.

La vera natura del lavoro, in realtà, è sancita già in Genesi 3, 17 dove leggiamo: «Ad Adamo disse: “Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall’albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita”». E 2 Tessalonicesi 3, 10 ne raccomanda il valore, minacciando: «Se uno non vuole lavorare neppure mangi».

Leone XIII (1810-1903) nella sua Rerum Novarum (1891) si dimostra perfettamente allineato con la lettera della Bibbia quando afferma la necessità del lavoro faticoso:

Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.

Le convinzioni di Leone XIII non circolano solo tra i cattolici, se è vero che anche Lenin (1870-1924) amava ripetere: «Chi non lavora non mangia: ecco la regola essenziale, iniziale, principale che possono e debbono applicare i soviet quando saranno al potere» (cit. in Pertosa, Santoni, 2017, pp. 28-29), monito che qualche decennio dopo fu raccolto da Adriano Celentano nella canzone “Chi non lavora non fa l’amore”.

Ciò che emerge dal racconto biblico e dalle varie epigenesi, colte o pop, che a esso sono seguite è che il lavoro è affanno, sofferenza, disagio, per quanto necessario alla sopravvivenza della specie. Ma tale natura penosa è continuamente velata da un’ideologia del lavoro come dovere e come riscatto, ormai interiorizzata da millenni, che ha reso sopportabili secoli di miseria e di fatica. Anzi, come osserva Philippe Godard, «oggi il lavoro è a tal punto interiorizzato che metterlo in discussione equivale a mettere in discussione la stessa umanità dell’uomo» (Godard, 2011, p. 53). Così come è saldamente interiorizzata l’idea del lavoro come nobile dovere. Ma la verità è che il concetto di dovere associato al lavoro, nota il grande filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970), è «un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere anche a se stessi questo fatto, convincendosi che i loro interessi coincidono con gli interessi dell’umanità in senso lato» (Lafargue, Russell, 1992, p. 106).

L’etica del lavoro, continua Russell, è l’etica degli schiavi «e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi» (Lafargue, Russell, 1992, p. 105), anche se, aggiunge Paul Lafargue (1842-1911), il genero di Marx, «i preti, gli economisti, i moralisti hanno proclamato il lavoro sacrosanto. Da uomini ciechi e limitati quali sono, hanno voluto essere più saggi del loro stesso Dio; uomini fiacchi e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto» (Lafargue, Russell, 1992, p. 57).

Il filosofo Giuseppe Rensi (1871-1941) è probabilmente tra i pochi che hanno scoperchiato la vera natura del lavoro. Rensi scorge una vera e propria relazione tra “dignificazione” del lavoro e natura dello stesso. Quanto più il lavoro è ritenuto infimo, detestabile, miserevole, tanto più aumenta la necessità di rappresentarlo come somma virtù.

Non ci devono ingannare le frasi d’apoteosi della funzione del lavoro che si ripetono sempre più frequenti e sonore negli ambienti o sui giornali operai. Se guardiamo, oltre queste mere frasi, alla realtà, vediamo chiaramente come al crescere dell’importanza economica, della considerazione sociale, dell’ascendente politico del lavoro, vada, parallelo (o meglio, sia il necessario precedente) il fastidio profondo, l’insofferenza, il senso d’insopportabilità, l’odio del lavoro stesso, in quelle classi appunto che, vivendo di questo, si sforzano di sospingere sempre più in alto, in ogni campo, la valutazione di esso. La crescente valutazione, autorità, dignificazione del lavoro, non è che effetto della ripugnanza e dell’odio, sempre più chiari e meno compressi, che esso ispira, ossia dell’assoluta svalutazione morale in cui esso è caduto presso i lavoratori, del suo apparire incoercibilmente a questi come un fatto puramente materiale e bruto, spoglio di ogni valore etico, da cui preme, quanto più si può, sottrarsi […]. Le classi lavoratrici odiano il lavoro e vogliono che sia sempre più valutato appunto perché lo odiano. L’odio pel lavoro; questo è il propulsore reale dell’esigenza che sotto tutti gli aspetti esso acquisti un sempre maggior apprezzamento (Rensi, 2012, pp. 41-42).

E ancora:

Tutti gli uomini odiano il lavoro. E necessariamente e con ragione: perché – e questo è il nocciolo del tragico viluppo in cui l’umanità si dibatte invano circa questa questione – il lavoro è meritamente odioso. Non è una cosa nobile, ma una necessità inferiore della vita della specie e dell’esistenza dei più, ripugnante essenzialmente alla più alta natura dell’uomo; per cui si può affermare che la misura della nobiltà di tempra d’uno spirito umano è data dal modo con cui egli considera il lavoro: tanto più è nobile, quanto più lo abborre, tanto più è volgare e bassa quanto più si lascia, contro il proprio vero, diretto ed immediato istinto, persuadere dai teoremi d’una morale convenzionale ad idealizzarlo ed estollerlo (Rensi, 2012, pp. 43-44).

Ed ecco la “legge suprema” di Rensi sul lavoro:

Quanto più il lavoro è sentito come cosa spiritualmente nulla o avversa e ripugnante, tanto più lo si dignifica e valorizza, e per converso, tanto più lo si svaluta, quanto più è avvertito (come nel caso del lavoro intellettuale) essere cosa atta a colmare l’anima, a dar un senso di pienezza alla nostra vita psichica, una cosa, insomma, rivestita di profondo significato spirituale (Rensi, 2012, p. 52).

Solo il gioco e la contemplazione rendono gli esseri umani degni di sé, essendo attività svolte unicamente per il piacere di svolgerle.

Chi è costretto a  destinare il meglio della sua giornata, cioè del suo tempo, ossia della sua vita (e siano pure anche le otto o le sette o 1e sei ore, e lavori egli come salariato o padrone o membro del proletariato dittatore che percepisca e divida l’intero provento del lavoro) ad un lavoro che gli pesa, che forse odia, o che solo lo annoia, per cui non ha interesse diretto, ma solo l’interesse indiretto del guadagno che da esso ricaverà, lavoro che quindi non farebbe anche senza essere pagato e per voglia spontanea, che non è un’attività che lo appaghi pel solo gusto di esercitarla – costui, si può forse dire che sia trattato come fine? No; manifestamente nell’atto del suo lavoro egli è semplice mezzo; la sua vita, il suo io, in quanto presi nel lavoro, non appartengono più a lui, perché egli non ne può fare ciò che vuole; essi sono mezzi, sia pure mezzi per un risultato (ulteriore ed esterno alla sua attuale attività-lavoro) ch’egli stesso percepirà e godrà; sia pure, cioè, mezzi della sua stessa vita e suo stesso io, della sua vita e del suo io d’un altro momento. O, come anche si può dire, il suo spirito, intanto che egli lavora, è costretto a servir di mezzo a suoi elementari bisogni organici come quello di vivere; per quanto i bisogni siano suoi egli è sempre soltanto un mezzo (Rensi, 2012, pp. 68-69).

Il lavoro, dunque, è dichiarato nobile per coprire i suoi aspetti odiosi e necessari. La retorica della nobiltà serve a conferire un senso giustificatorio e assolutorio a un complesso di attività che uomini e donne hanno svolto da sempre per pura necessità. Tanto è vero che pochi tra noi farebbero il loro lavoro se non fossero pagati. Ma c’è un altro aspetto per cui il lavoro è ritenuto dignitoso dalla società. Ne parla Friedrich Nietzsche (1844-1900) in uno dei suoi aforismi meno noti:

Gli apologeti del lavoro. Nell’esaltazione del «lavoro», negli instancabili discorsi sulla «benedizione del lavoro» vedo la stessa riposta intenzione che si nasconde nella lode delle azioni impersonali di comune utilità: la paura, cioè, di ogni realtà individuale. In fondo, alla vista del lavoro – e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera – si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare; esso si pone sempre sott’occhio un piccolo obiettivo e procura lievi e regolari appagamenti. Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggiore sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma (Nietzsche, 1981, p. 122).

Il lavoro serve ad assegnare e mantenere al loro posto le persone in modo che esse non dedichino le proprie energie e il proprio tempo ad attività potenzialmente pericolose per la società stessa. Predicando la dignità del lavoro, al contempo ponendo ostacoli, dati i limiti dei corpi e delle menti umane, alla pianificazione e realizzazione di attività non conformi ai principi su cui si sorregge, la società “normalizza” i suoi membri, garantendosi ordine e sicurezza. Uomini e donne, sfiniti da ore e ore di lavoro brutalmente privo di significato, possono solo rivolgersi ad attività di consumo e tempo libero per recuperare un minimo di energia, che, però, servirà a riprendere la successione infinita di alternanza sforzo-riposo fino alle soglie della pensione, età in cui non si ha, di norma, né la forza né la volontà di fare alcunché. Ogni anelito innovativo viene, dunque, smorzato nel nome della sacralità del lavoro. È per questo che la nostra società glorifica il lavoro e teme la disoccupazione come la più grande piaga esistenziale. Non importa quale lavoro si abbia, l’importante è lavorare. E se non si lavora, si diventa “fannulloni”, “buoni a nulla”, “smidollati”. Tutto questo lessico sanzionatorio non è casuale, ma serve a sostenere quotidianamente la perpetuazione del lavoro per come lo conosciamo.

Il lavoro occupa le nostre vite, il nostro tempo, assorbe quasi interamente le nostre energie. Per rendere tutto ciò giustificabile agli occhi dei lavoratori, è necessario creare una retorica nobilitante che avvolge come una patina dorata il proprio oggetto di riferimento, facendolo apparire quasi magico, sicuramente dignitoso. Si pensi all’uso del verbo “sistemarsi” per descrivere la condizione di chi ha trovato un impiego stabile. Quanti riflettono sul fatto che “sistemarsi” vuol dire “entrare a far parte del sistema”, un termine fino a qualche anno fa inviso ai più per le sue connotazioni eccessivamente conformistiche? Si pensi, inoltre, che altri termini connotati positivamente dal lessico comune nascondono un’origine servile e strumentale: “impiegato” è il participio passato di “impiegare”, ossia, “usare”, “adoperare”, ma se tutti, o quasi, ambiscono a essere “impiegati”, a nessuno piace definirsi “usato”. “Dipendente” è il participio presente del verbo “dipendere”, che rimanda a una condizione di subalternità. “Dipendere” da qualcuno è visto come un ostacolo all’autonomia personale nella nostra società, eppure tanti aspirano a essere “dipendenti” pubblici o privati.  “Funzionario” significa “destinatario di una funzione”, espressione che appare ridurre l’essere umano all’ingranaggio di un meccanismo, eppure diventare “funzionario” è l’ambizione di molti concorsisti pubblici. La retorica nobilitante del lavoro riesce a far apparire attraenti condizioni che non lo sono, conferendo loro status e prestigio. Un’operazione affine alla magia che rende prevedibile e controllabile il comportamento umano, impedendo, però, come sosteneva Nietzsche, il potenziarsi della ragione e il desiderio d’indipendenza.

In questo senso, si può dire che il lavoro svolga un’azione disciplinare sui lavoratori, esercitando un controllo totalitario su di essi attraverso l’imposizione di un’occupazione monotona e avvilente, gabbie temporali predeterminate simbolizzate da timbrature all’entrata e all’uscita, obiettivi alienanti e impersonali, forme di sorveglianza sempre più intrusive. Il risultato è un impoverimento sistematico delle potenzialità umane, magistralmente espresso dall’anarchico Bob Black:

Tu sei ciò che fai. Se fai un noioso, stupido, monotono lavoro, hai buone probabilità di diventare noioso, stupido e monotono. Il lavoro è la migliore spiegazione per il cretinismo strisciante attorno a noi, più dei pur notevoli meccanismi di rimbambimento quali televisione e istruzione. Persone irreggimentate per tutta la vita, sospinte dalla scuola al lavoro, rinchiuse all’inizio in famiglia e alla fine in case di cura, sono abituate alla gerarchia e schiavizzate psicologicamente. La loro attitudine all’autonomia è così atrofizzata che la paura della libertà è tra le loro poche fobie razionalmente fondate. L’addestramento alla dedizione verso il lavoro si svolge nelle famiglie dove nascono, riproducendo così il sistema in diversi modi, nella politica, nella cultura, e in ogni altro settore. Una volta che togli vitalità alla gente sul lavoro, facilmente si sottometterà alla gerarchia e agli esperti ovunque (Black, 2023, pp. 32-33).

Per Aristotele una vita degna era indipendente dalle necessità e dalle relazioni che da queste scaturivano. Ogni modo di essere dedito esclusivamente alla conservazione della nuda vita era considerato una forma inferiore e non libera di esistenza. La vita vera, degna, era quella consacrata a cose né necessarie né semplicemente utili: il bello, la polis, la filosofia. Solo la libertà dalla necessità portava alla felicità (l’eudaimonia) che era una condizione legata innanzitutto alla ricchezza e alla salute. Portando alle estreme conseguenze questa riflessione, il lavoro era giudicato una sorta di malattia in quanto imponeva una necessità che impediva la piena libertà. Certo di acqua ne è passata sotto i ponti da quando Aristotele diceva queste cose, e la nostra società, basata sul lavoro, è stata costretta a glorificarlo per poter progredire. Milioni di vite che aristotelicamente sarebbero indegne hanno così trovato un senso alle loro esistenze finalizzate al necessario, al non bello. Celebriamo ipocritamente il lavoro perché non possiamo farne a meno. Ma la realtà è che il lavoro rende schiavi, assoggetta, rende mansueti e priva della libertà creativa e di vivere.

Ciò vale anche nella contemporaneità, dove abbondano quelli che l’antropologo David Graeber (1961-2020) chiama bullshit jobs (“lavori di merda”). Per Graeber, in una società come la nostra, in cui il significato del lavoro è fine a sé stesso,

Siamo arrivati al punto di credere che uomini e donne che non lavorano quanto dovrebbero o che sono impegnate in occupazioni che non amano particolarmente siano cattive persone, che non meritano amore, cura o assistenza da parte della comunità. È come se avessimo collettivamente acconsentito al nostro stesso asservimento. Quando ci rendiamo conto che per la metà del tempo siamo impegnati in attività del tutto prive di significato o perfino controproducenti – in genere agli ordini di una persona che non ci piace –, la prima reazione politica consiste nel ribollire di risentimento perché altre persone potrebbero non essere cadute nella medesima trappola. Di conseguenza odio, rancore e sospetto sono diventati il collante che tiene assieme la società (Graeber, 2018, p. 20).

Graeber definisce bullshit jobs quelle occupazioni retribuite che sono così totalmente inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così (Graeber, 2018, p. 31). Secondo l’antropologo statunitense, nella nostra società esistono almeno cinque categorie di lavori senza senso: il tirapiedi (flunky), lo sgherro (goon), il ricucitore (duct taper), il barracaselle (box ticker), il supervisore (taskmaster).

I tirapiedi esistono solo o principalmente per far sembrare o sentire importante qualcun altro. Alcuni esempi sono: gli uscieri e le guardie del corpo.

Gli sgherri presentano una componente di aggressività ed esistono solo perché altri li impiegano. Esempi: lobbisti, addetti al telemarketing, lobbisti.

I ricucitori sono dipendenti i cui lavori esistono solo per un difetto o una mancanza nell’organizzazione; sono lì per risolvere un problema che non dovrebbe esistere. Un esempio sono coloro che hanno il compito di rimediare agli errori dei superiori.

I barracaselle sono dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire a un’organizzazione di affermare che sta facendo qualcosa che in realtà non sta facendo, come chi è addetto a compilare moduli che non hanno alcuna utilità.

I supervisori, infine, sono individui il cui lavoro consiste unicamente nell’assegnazione di lavoro ad altri o nel creare mansioni senza senso da far svolgere ad altri.

Una volta che si è consapevoli di tutto questo, come è possibile continuare a ripetere che “il lavoro nobilita l’uomo”?

Riassumiamo.

Il lavoro nella società contemporanea rappresenta una condizione sconfortante, avvilente, deprimente. Tanto più in quanto pretende di assorbire gran parte del nostro budget temporale ed energetico.

Il lavoro uccide non solo il tempo che dedichiamo al lavoro, ma anche il resto del tempo: quello che dedichiamo ai giochi, alle vacanze, al “tempo libero”, che, in realtà, è tempo destinato al recupero delle forze una volta che queste sono state svuotate dal lavoro e serve a ricaricarci in vista di nuove “sedute di profonda alienazione”.

Il lavoro “ci disciplina”, facendo di noi degli esseri “ragionevoli” e “maturi”, termini con i quali si certifica la totale integrazione passiva dell’individuo nel sistema di cui fa parte. Ci disciplina anche nel senso che plasma i nostri desideri, la nostra volontà, le nostre pulsioni in modi che, prima di iniziare a lavorare, non condivideremmo di certo.

Il lavoro ci schiavizza, costringendoci a venderci in cambio di denaro e trasformando la nostra dignità in una merce come tante altre.

Il lavoro ci rende individui malati e fragili: ci fa ammalare a causa delle posture innaturali che ci costringe ad assumere e ci rende fragili psichicamente perché senza di esso sentiamo di non valere niente.

Il lavoro limita la nostra libertà, obbligandoci a rimanere nello stesso luogo e in compagnia delle stesse persone per giorni, mesi e anni.

Il lavoro rende indolenti le nostre facoltà mentali e intellettuali, incanalandole verso attività stagnanti, stabilite da altri.

Insomma, viene voglia di dire, con Bertolt Brecht, «Che cos’è l’omicidio di un uomo di fronte alla sua assunzione?» (Brecht, 2018, pp. 87-88).

Riferimenti

Black, Bob, 2023, L’abolizione del lavoro e altri saggi, Ortica Editrice, Aprilia (LT).

Brecht, B., 2018, “L’opera da tre soldi”, in I capolavori, vol. I, Einaudi, Torino.

Godard, P., 2011, Contro il lavoro, Elèuthera, Milano.

Graeber, D., 2018, Bullshit jobs, Garzanti, Milano.

Lafargue, P., Russell, B., 1992, Economia dell’ozio, Olivares, Milano.

Nietzsche, F., 1981, Aurora, Mondadori, Milano.

Orwell, G., 1986, 1984, Mondadori, Milano.

Pertosa A., Santoni L., 2017, Lavorare sfianca, Enrico Damiani Editore, Salò, Brescia.

Rensi, G., 2012, Contro il lavoro, Gwynplaine, Camerano (AN).

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