In un libro pubblicato nel 1969, The Crime of Punishment, lo psichiatra e criminologo Karl Menninger (1893-1990) offre questa riflessione: «Ritengo che il danno complessivo inflitto alla società da tutti i reati commessi da tutti i criminali detenuti non sia uguale a quello inflitto alla società dai reati commessi contro di loro».
Quando viene commesso un crimine, il desiderio di tutti è quelli di punire l’autore del reato, dosando la severità della punizione in ragione della gravità del reato. Non ci interessa quello che accade al criminale detenuto, né tantomeno le ripercussioni che ciò che gli accade avrà su di lui e sulla società nel complesso. Ci interessa semplicemente che sia soddisfatta la nostra voglia di punizione, che è, in realtà, una voglia di vendetta camuffata nemmeno tanto bene.
Così, prosegue Menninger, «c’è un crimine che tutti noi continuiamo a commettere, ripetutamente. […] Commettiamo il crimine di condannare alcuni nostri simili applicando loro l’etichetta di “criminale”. E, dopo di ciò, li obblighiamo a subire un’esperienza abbrutente e disumanizzante».
L’accusa di Menninger è straniante: i reati commessi nei confronti di chi è in prigione sono più dannosi alla società dei reati da loro commessi e per i quali sono condannati alla pena del carcere. Se, dunque, riuscissimo a resistere alla tentazione di soddisfare il nostro desiderio di vendetta camuffato, riusciremmo ad avere una società migliore in cui la risposta al crimine non è un altro crimine, ma un atto di vera giustizia.
Per Menninger, il dolore e la disperazione che affliggono tanti nostri simili nella società potrebbero essere evitati soprattutto attraverso una efficace opera di prevenzione della sofferenza non necessaria alla fonte, prima che gli individui prendano o siano costretti a prendere la strada sbagliata.
Menninger era convinto che buona parte del crimine e della malattia mentale possano essere prevenuti modificando l’ambiente sociale degli individui e fornendo loro sostegno emotivo, soprattutto durante l’infanzia. Infatti, l’io sottoposto a uno stress gravoso, prolungato e inaspettato, nello sforzo di mantenere l’equilibrio delle sue strutture, del suo funzionamento, perseguendo il massimo possibile di aderenza alla realtà, pone in essere vari tipi di meccanismi di relazione, uno dei quali può consistere nella scarica caotica e disordinata di aggressività per cui la personalità viene, per così dire, sommersa al punto da disorganizzarsi.
Evitare questa disorganizzazione deve essere il compito della criminologia, ma anche dell’azione della società nei confronti dei suoi membri; membri, tuttavia, che sembrano più impegnanti a reclamare vendetta che a prevenire. Forse perché la vendetta è più appagante, da un punto di vista emotivo, della prevenzione.