Nel mio libro Verso una criminologia enantiodromica, ho esposto alcuni principi riguardanti quella che ho definito una criminologia enantiodromica, ossia una criminologia che contempla la possibilità che da comportamenti criminali o devianti possano scaturire conseguenze positive tanto per gli individui quanto per la società nel suo complesso. Si tratta di un approccio per certi versi paradossale che però è esemplificato da decine e decine di situazioni che ho tentato di descrivere nel libro.
Rientra in questa visione “perversa” della criminologia un episodio non citato nel testo, ma molto noto: il furto della Gioconda. Come spiega lo storico Donald Sassoon in un volume dedicato alla “avventurosa storia” del quadro di Leonardo, «nel 1800 il dipinto era noto soltanto a una ristretta cerchia di intenditori, nessuno dei quali avrebbe osato dichiararlo il miglior quadro del mondo. Cent’anni più tardi era stato dissezionato, esaminato, discusso e fatto oggetto delle fantasie dell’intellighenzia letteraria e artistica del XX secolo, con il risultato che nei tratti della sconosciuta ci si poteva leggere quasi tutto» (p. 164). Notorietà, fama e celebrità arrivarono all’opera (anche) da un furto sensazionalistico che trasformò La Gioconda nel quadro più chiacchierato del mondo. Lunedì 21 agosto del 1911, il trentenne imbianchino italiano Vincenzo Peruggia, che aveva lavorato al Louvre, approfittò del giorno di chiusura per trafugare il dipinto. Il delitto ebbe eco straordinaria non solo in Francia, dove per molti giorni fu costantemente in prima pagina, ma anche in Italia e nel resto d’Europa. Improvvisamente, persone che non avevano mai sentito parlare del quadro, o che ne avevano una conoscenza superficiale, ne acquisirono una familiarità quotidiana; canzoni, cartoline, cortometraggi e spettacoli di cabaret ne parlarono; il mondo politico prese posizione sull’argomento; i critici d’arte riscoprirono la Monna Lisa come un’opera meravigliosa; le folle la acclamarono come il più bel dipinto del mondo.
Sul finire del 1913, quando l’opera fu ritrovata in Italia e Peruggia incarcerato, partì una enorme campagna stampa, mentre scrittori come Gabriele D’Annunzio tessevano le lodi del dipinto e di Peruggia. Prima di essere restituita al Louvre, La Gioconda fu esibita in un piccolo tour in Italia dove fu vista da migliaia di persone. Stessa sorte ebbe in Francia e perfino «Vincenzo Peruggia ebbe il suo quarto d’ora di celebrità quando il quotidiano illustrato “Excelsior” del 14 dicembre 1913 mise la sua foto al centro di un récit-photo, un fotoromanzo» (p. 179). Come spiegò l’avvocato difensore di Peruggia, inoltre, «i venditori di cartoline e di giornali avevano visto aumentare le loro vendite, il Louvre era diventato anche più famoso e la restituzione dell’opera aveva migliorato le relazioni diplomatiche fra la Francia e l’Italia che fino a quel momento erano state piuttosto tese» (p. 180). A Peruggia fu inflitta una pena di un anno e 15 giorni e, quando morì, nel 1947, si disse che era scomparso “l’uomo che aveva rubato la Gioconda”. Nel 1914, la guida Baedeker di Parigi del 1914 definiva l’opera di Leonardo «il ritratto femminile più famoso del mondo», e aggiunse che da quando era stato ritrovato era diventato anche più più famoso.
In seguito, come sappiamo, Monna Lisa è diventata addirittura una icona pop e oggi nessuno negherebbe che il suo status di celebrità artistica è tra i più alti al mondo.
Seguendo i principi della criminologia enantiodromica, un furto – atto deviante per eccellenza insieme all’omicidio – ha come conseguenza una serie di effetti positivi sull’opera rubata, sulla fruizione artistica della stessa, sulla comunità che la ospita, sui rapporti tra stati. Un esempio clamoroso di come un gesto di per sé esecrabile possa avere delle conseguenze paradossali, perverse. Enantiodromiche, appunto.
Fonte: Donald Sassoon, 2002, La Gioconda. L’avventurosa storia del quadro più famoso del mondo, Carocci, Roma.