È possibile che la testimonianza di una fantasma porti alla condanna di un assassino? Può un intervento soprannaturale decidere delle sorti terrene di un individuo sospettato di omicidio? La storia del fantasma di Greenbrier, cittadina della Virginia Occidentale, è spesso citata negli Stati Uniti a conferma di questa possibilità.
I fatti risalgono a oltre un secolo fa, precisamente al 1897. In quell’anno, nella città americana, si svolse un processo contro Erasmus Shue, un buono a nulla, più volte in carcere per furto e maltrattamento e accusato di aver ucciso la sua terza moglie, Elva Zona Heaster (diceva che voleva arrivare ad avere sette mogli). Secondo vari resoconti giornalistici, le prove contro Shue erano insufficienti: alla scoperta del cadavere della moglie, questi aveva rivestito frettolosamente il corpo della donna, impedendo un esame accurato dello stesso e inducendo il dr. Knapp, convocato per stabilire le cause della morte, ad attribuire il decesso di Zona a “problemi femminili” (female trouble) o, come affermò una settimana dopo l’uccisione, a una complicazione legata al parto, sebbene la donna non fosse neppure incinta.
L’uomo l’avrebbe, dunque, fatta franca se non fosse intervenuta la madre della vittima, Mary Jane Heaster, la quale riferì di essere stata visitata per ben quattro volte dal fantasma della figlia che le avrebbe rivelato tutti i macabri e violenti dettagli della sua morte. In seguito a questa testimonianza, proseguono i resoconti, Shue fu condannato e trascorse il resto della sua vita in prigione. Quanta verità c’è in questo racconto che, se fosse vero, sarebbe l’unico caso documentato in cui la testimonianza di un fantasma ha condotto a una sentenza di colpevolezza in un tribunale americano?
Il caso di Erasmus Shue e del fantasma che lo condannò è uno di quei casi in cui la comprensione degli avvenimenti dipende da come questi sono narrati (si potrebbe parlare, al riguardo, di un “effetto narrazione”) e dal frame (“cornice”) in cui sono inseriti. Basta spostare il frame che essi appaiono in una luce diversa, che di soprannaturale ha ben poco.
L’elemento centrale della vicenda è sicuramente la testimonianza di Mary Jane Heaster e l’interpretazione che a essa fu data da giudici, giornalisti e persone comuni. In alcuni giornali dell’epoca – quelli che contribuirono a creare la narrazione soprannaturale – le parole della madre della vittima furono interpretate come quelle di un normale testimone d’accusa e i suoi contenuti come una prova decisiva ai fini della condanna di Shue.
Il «Baltimore American», ad esempio, riferì:
La testimonianza principale è stata quella della suocera di Shue, la quale ha dichiarato di essere stata avvicinata dallo spirito della figlia durante una seduta spiritica e di aver ottenuto la rivelazione che Shue l’aveva uccisa rompendole il collo. Tutte le altre prove erano meramente circostanziali.
L’angolazione paranormale fu coltivata non solo dai quotidiani. Essa fu sfruttata anche dal teatro (si conoscono almeno tre adattamenti teatrali della vicenda) e da due romanzi.
In realtà, stando ad altre informazioni disponibili, apprendiamo che le parole di Mary Jane non ebbero alcun ruolo nella condanna di Shue, che la signora fu chiamata a testimoniare non dall’accusa, ma dalla difesa che aveva tentato in questo modo di screditarla, facendola apparire come una mezza svitata (in quanto era stata lei, come abbiamo visto, a sollevare i primi sospetti sul ruolo di Shue nella morte della figlia) e che le sue parole ebbero una influenza negativa sulla giuria. È probabile, addirittura, che Mary Jane si sia inventata tutto per favorire la condanna di un uomo che conosceva per essere spietato e senza cuore. Infine, Shue fu condannato perché emersero altre prove a suo carico: tra queste, una autopsia che aveva dimostrato che la donna era morta in seguito a un colpo infertole sul collo e non per cause naturali. La condanna di Shue non è ascrivibile, dunque, alla testimonianza di un fantasma.
Quando esaminiamo la veridicità di una storia, soprattutto quando questa appartiene a un passato distante, dobbiamo stare attenti ad esaminare tutte le fonti disponibili, a non cedere al fascino di quelle più sensazionali e ad adottare un atteggiamento critico nei confronti dei suoi contenuti. Troppo spesso “sposiamo” una teoria perché ci sembra esteticamente interessante, perché si conforma alle nostre credenze o perché “sarebbe bello se fosse vera”. A rendere le cose più complesse, intervengono poi le narrazioni, giornalistiche e non solo, che spesso non hanno l’obiettivo di informare, ma di catturare l’attenzione, perché più si cattura l’attenzione e più copie si vendono. Nel 1897 come oggi.
Fonte: Dunning, B. “The Greenbrier Ghost”. Skeptoid Podcast. Skeptoid Media, 11 Jun 2019. Web. 15 Jun 2019.
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