Sono d’accordo. Il capitalismo, come diceva Walter Benjamin in un abbozzo del 1921 (che potete leggere in appendice), è una religione, un sistema simbolico che soddisfa “ansie, tormenti, inquietudini”.
Non sono d’accordo. Il capitalismo non è una religione “puramente cultuale”, priva di dogmi e di teologie. Dogmi e teologie – e anche teologi – esistono e come.
Il dogma principale su cui si regge il capitalismo è quello del “mercato”, entità ontologica e misteriosa che tutto vede e tutto decide, coerentemente assimilata a una divinità nei nostri discorsi: “Lo vuole il mercato”; “I mercati sono in fermento”; “Sarà il mercato a stabilirlo”. Per rendersi conto della dimensione teologica in cui si muove il capitalismo, basta sostituire in queste frasi la parola “mercato” con la parola “dio”. Il mercato – o politeisticamente “i mercati” – è panteisticamente presente nelle nostre vite. Non vi è nulla che gli sfugga, nulla che non abbia già stabilito e il suo trucco più abile consiste nel fatto che è disposto a tutto pur di farci credere che non esiste. Del resto, la sua metafora più nota è quella della smithiana “mano invisibile”. Il mercato è a noi invisibile, ma vede tutti noi benissimo.
Il capitalismo ha anche i suoi officianti: gli imprenditori. Gli imprenditori indossano i loro paramenti: giacca e cravatta, il novello saio della modernità. Gli imprenditori seguono una loro liturgia consacrata dall’uso: metodi consolidati per fare soldi che si chiamano produzione e marketing. Gli imprenditori hanno un unico fine: conseguire profitti. Il profitto sta al capitalista, come la salvezza sta al cristiano. Oggi, tutti vogliono essere imprenditori, così come un tempo tutti volevano farsi preti. Per sopravvivere e ottenere prestigio. Sono finiti perfino i tempi in cui venivano chiamati oltraggiosamente “padroni”. Oggi, “imprenditore” è una “bella” parola.
Il capitalismo ha i suoi luoghi di culto: le borse, le grandi aziende, le multinazionali dove, giorno dopo giorno, viene celebrata la religione del capitale-sempre-investito perché il capitale non sta mai fermo. Tuttavia, come il dio delle religioni, il capitale è “in cielo, in terra e in ogni luogo”: si espande e moltiplica i suoi tentacoli di piovra senza soluzione di continuità così che, in realtà, il mondo tutto è il suo luogo sacro. Dove sono due o tre riuniti nel suo nome, esso è in mezzo a loro. E all’umanità piace riunirsi nel suo nome.
Come afferma Benjamin, il capitalismo è una religione per la quale “non esistono “giorni feriali”: ogni giorno è festivo”. Ogni giorno è utile per conseguire profitti. Non esistono barriere o laccioli. Tutto il resto è noia, o meglio, vuoto. Il capitalismo è sempre attivo, non dorme mai, non si concede licenze o moratorie. Sfuggirgli è praticamente impossibile. Perfino i nostri sogni possono essere capitalizzati. Tutto può essere mercificato, ossia asservito al capitalismo. Anche il corpo e la dignità.
Il capitalismo è talmente pervasivo che si insinua e domina perfino il linguaggio, che non a caso mutua molti suoi termini dalla religione. Parole come mission, redemption, vision, vocazione, community, fidelizzazione (loyalty), customer loyalty, fidelity card/programs, follower (seguace), ricompensa (reward), sofferenza (quando il cliente è valutato dalla banca come “insolvente”), valori e conversione vengono oggi disinvoltamente adoperati nel gergo degli addetti ai lavori per descrivere le loro azioni e conferire loro un senso ieratico di cui sembrano molto fieri. Non esiste una lingua neutra e le alternative rimandano a epoche pregresse che non torneranno più. Anche l’onore appare un sentimento vetusto, sostituito dalla reputazione, asset indispensabile dell’esistenza produttiva nella contemporaneità.
Al tempo stesso, in ambito scolastico, è tutto un parlare di “crediti” e “debiti”. In ambito lavorativo, si esibiscono termini come management e performance. In medicina e in psicoterapia, i “clienti” hanno ormai sostituito i “pazienti”. Nel linguaggio quotidiano si usano acriticamente termini come “il tempo è denaro”, “al netto di”, “fare il bilancio della propria vita”, “mercato dei sentimenti”, “rendimento scarso”, “prestazione”, “essere competitivi”, “acquistare credito”, “essere produttivo”, “ogni cosa ha il suo prezzo”, “sono in deficit”, “come sei fiscale!” ecc.
La verità è che il capitalismo ha ormai raggiunto la più perfetta egemonia culturale, ossia gramscianamente la direzione e il dominio assoluto delle idee. Basta provare a proporre ideali diversi, lontani dal credo capitalistico, che le persone vi guarderanno come si guarda un folle, un idiota o, al meglio, un passatista. È questo che fa una religione (o un’ideologia) quando prevale sulle altre: si spaccia per senso comune, per si-è-sempre-creduto-così e fa pensare a tutti che concepire idee diverse sia profondamente sbagliato, se non, come detto, folle.
Il capitalismo dominante impone a tutti una religione unica, quella incarnata, in politica, dal liberalismo (nelle sue varianti post-) e, in economia, dal liberismo (nelle stesse varianti). La sua struttura ideale è molto semplice e non richiede alcuno sforzo particolare, al limite nessun sacrificio. Il sacrificio è sostituito dal consumo: più si consuma, più si esprime appartenenza e meno si corrono rischi di deragliare. Il consumo ha sostituito, a tutti gli effetti pratici, gli antichi riti espiatori, sacrificali e propiziatori. Se si vuole guadagnare piena appartenenza alla società odierna, è necessario dimostrare di essere un buon consumatore. Sempre e ovunque.
Come la religione crea la colpa con il peccato originale, così il capitalismo crea il debito come colpa suprema da espiare e l’indebitato (verschuldend nel linguaggio di Benjamin) come suo sommo rappresentante. Siamo tutti perennemente in debito grazie al mutuo, alla rata e a tutti gli strumenti tramite cui il capitalismo ci avvinghia al proprio sistema, rendendocene fedeli servitori, impadronendosi del tempo e dei soldi che abbiamo.
Come tutte le religioni finora conosciute, il capitalismo è una religione che non tollera eresie, scostamenti dai suoi dogmi, pensieri alternativi. Ogni difformità è presto ridicolizzata, marginalizzata, criminalizzata o – tattica sublime – incorporata e resa docile, incanalata nei melliflui circuiti mercificanti del “sistema” (parola oggi inattuale). Ogni intellettuale che osi mettere in discussione le fondamenta del capitalismo, ad esempio, verrà disinnescato attraverso la concessione di una posizione all’interno dell’università, la pubblicazione di un libro di successo, il conseguimento dello status di “pensatore indipendente”, tutte strategie utilizzate per cooptare il dissenziente all’interno del “sistema” e ricondurlo a più miti consigli. L’arma della cooptazione è più subdola ed efficace di quella della marginalizzazione o della criminalizzazione e rappresenta una caratteristica vincente della religione ecumenica del capitalismo.
Abbiamo bisogno di un ateismo radicale che ci consenta di liberarci definitivamente da questa religione onnipervasiva che si chiama capitalismo, riconducendola a uno dei tanti modi di vedere il mondo. È una impresa difficile, titanica, apparentemente impossibile. Per compierla abbiamo bisogno di un’eresia, forse di una nuova religione, sicuramente di una nuova inquietudine, che oggi, assuefatti come siamo ai dogmi del capitalismo trionfante, non siamo nemmeno in grado di concepire. Siamo tutti morfinomani in questo sistema. E disintossicarci è difficile in questa valle di lacrime.
In appendice a queste riflessioni: Walter Benjamin, Il capitalismo come religione (1921).
Il capitalismo come religione
Walter Benjamin (1921)
Versione di: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020.
Nel capitalismo va scorta una religione; cioè il capitalismo serve essenzialmente a soddisfare le stesse ansie, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni.
Provare tale struttura religiosa del capitalismo (non à la Weber, come costruzione in guisa religiosa, bensì come fenomeno in sé religioso) sarebbe inutilmente polemogeno perché prematuro. Non si può sciogliere la rete su cui stiamo sospesi. Solo il futuro ne darà una visione d’insieme.
Eppure il presente già offre tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo.
PRIMO. Il capitalismo è una religione puramente cultuale, forse la più estrema mai esistita. In esso tutto ha significato solo in rapporto diretto col culto; senza alcuna specifica dogmatica, né teologia. L’utilitarismo ottiene, da questo punto di vista, la sua tonalità religiosa.
SECONDO. A tale concrezione del culto segue: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci [senza tregua e senza pietà]. Non esistono “giorni feriali”: ogni giorno è festivo nel terribile senso di: dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estremo sforzo del venerante.
TERZO. Tale culto “colpevolizza e indebita” [verschuldend]. Il capitalismo è forse il primo culto a non espiare, bensì creare “colpa & debito” [verschuldend]. Così tale sistema religioso è immesso in un movimento immane. Una piena coscienza della colpa [Schuldbewuβtsein], irredimibile, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per includere Dio stesso in questa colpa, per render pur esso bisognoso di espiazione. Espiazione che non va attesa dal culto stesso, né da una riforma di tale religione (che dovrebbe reggersi su qualcosa di saldo in essa), né da una sua abiura. Essenza di questo movimento religioso (il capitalismo) è procedere fino alla totale e completa colpevolizzazione di Dio: sperare di raggiungere lo stato di disperazione cosmica. Novità storica del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua tabe. Dilatare la disperazione a stato religioso cosmico; e da ciò aspettarsi la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma non è morto; bensì subisce il destino umano. Tale transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos trovato da Nietzsche. L’oltreuomo è chi per primo inizi di proposito a compiere la religione capitalistica.
Ecco un QUARTO tratto di questa religione: il suo Dio va occultato finché non sarà permesso invocarlo solo allo zenit della sua “colpevolizzazione & indebitamento”. Il culto è celebrato ante una divinità immatura: farsene un’immagine o un’idea lede il segreto della sua maturità.
Pure la psicanalisi costituisce la ierocrazia di questo culto. Freud pensa in guisa affatto capitalistica. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è analogo (come non è stato ancora studiato) al capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga un interesse.
Il tipo di pensiero religioso capitalistico trova espressione grandiosa nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’oltreuomo pone il “salto” apocalittico (anziché nel trasmutarsi [Umkehr], nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza) in una crescita del quarto tratto apparentemente continua, ma in realtà esplosiva e discontinua. Crescita ed evoluzione sono incompatibili nel senso del “non facit saltum”. L’oltreuomo è l’uomo storico cresciuto fino ad attraversare il cielo senza trasmutarsi. Nietzsche ha pronosticato questo sfondamento del cielo da parte di un elemento umano cresciuto, che (pure per Nietzsche) è e resta sul piano religioso colpevolizzazione.
Lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si trasmuta diviene socialismo grazie agli interessi semplici e composti che sono funzioni della colpa-debito (tale è l’ambiguità demoniaca del termine Schuld).
Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.
Il capitalismo occidentale (come provato per il calvinismo; ma provabile per le altre correnti cristiane) si è sviluppato come parassita del cristianesimo, tant’è che la storia del cristianesimo è in sostanza la storia del suo parassita: il capitalismo.
(Da paragonare: le immagini sacre delle diverse religioni da un lato e dall’altro le banconote dei vari Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote).
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs: Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg, II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.
Inquietudini: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Spirituale (non materiale) assenza di scampo: monachesimo errante e mendicante. Una situazione così senza scampo è colpevolizzante-indebitante. Le “inquietudini” sono l’indice di tale coscienza della colpa-di-non-aver-scampo. Le “inquietudini” sorgono dall’angoscia che non c’è scampo a livello comunitario (non individuale-materiale).
Il cristianesimo nell’epoca della Riforma si è fatto capitalismo (anziché favorir il sorger del capitalismo).
Sul piano metodologico andrebbero anzitutto indagati quali legami col mito il denaro abbia stretto lungo la storia, finché ha poi tratto dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costruirsi un proprio mito.
Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al prete. Pluto come dio della ricchezza.
Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.
Nesso fra capitalismo & dogma della natura dissolutrice del sapere (la quale è in grado di redimerci e insieme di ucciderci): il bilancio quale sapere che redime e che liquida.
Per capire che il capitalismo è una religione, giova rammentare che il paganesimo originario concepisse la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico. Cioè, come il capitalismo odierno, esso non aveva chiara la sua natura “ideale” o “trascendente”, bensì stimava l’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità un membro indubitabile della comunità, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri senza reddito.
Fonte: https://www.marxists.org/italiano/benjamin/capitalismo-religione.htm