Capita di frequente di incontrare persone o di vedere programmi televisivi che assimilano gli animali agli uomini: dicono che gli animali “sono stressati”, “si divertono”, “si vergognano”, “sono furbi”, “strizzano l’occhio complici”, “sono pigri” o provano i più alti sentimenti morali. Di solito queste dichiarazioni sono accolte in maniera acritica, come se ciò fosse naturale. Del resto, probabilmente, nessun secolo come l’ultimo ha mai antropomorfizzato gli animali come facciamo noi. Se questo atteggiamento ci consente forse di essere più “umani” nei confronti degli animali, e ha quindi conseguenze positive, dobbiamo citare anche conseguenze negative come quella di attribuire agli animali stati mentali, intenzioni, visioni del mondo che semplicemente non hanno, con tanto di gustosi aneddoti sul comportamento di cani e gatti, ad esempio, che assomigliano incredibilmente ai loro proprietari.
A tal proposito mi piace richiamare un principio oggi praticamente dimenticato, noto come il “canone di Morgan” dal nome dello psicologo Lloyd Morgan il quale, nel 1903, nel suo An introduction to comparative psychology scrisse:
In no case may we interpret an action as the outcome of the exercise of a higher psychical faculty, if it can be interpreted as the outcome of the exercise of one which stands lower in the psychological scale.
che potremmo tradurre:
In nessun caso è lecito interpretare un’azione come il risultato dell’esercizio di una facoltà psichica superiore, se essa può essere interpretata come il risultato dell’esercizio di una facoltà di livello psicologico inferiore.
Morgan aveva in mente interpretazioni come quelle offerte dal suo contemporaneo e collega George John Romanes che non aveva problemi a scrivere, ad esempio, del suo cane:
“Uno dei divertimenti preferiti del terrier consisteva nell’acchiappare le mosche posate sulle finestre. Quando però si sentiva canzonare per un agguato andato a vuoto, questo sembrava infastidirlo molto. Un giorno, per vedere che cosa avrebbe fatto, mi misi a ridere senza ritegno ad ogni fallimento dei suoi tentativi. La cosa si ripeté più volte di seguito, in parte credo proprio in reazione alle mie risate, e da ultimo egli era così abbattuto che cominciò in certo qual modo a far finta di acchiappare le mosche. Eseguiva con le labbra e con la bocca tutti i movimenti che avrebbe fatto dopo averne catturata una, e successivamente strofinava il collo sul pavimento, come se volesse uccidere la preda. Poi si volgeva a guardarmi, con un trionfante sguardo di successo. L’intero processo era così ben simulato che ci sarei cascato, se non avessi notato la mosca ancora posata sulla finestra. Di conseguenza richiamai l’attenzione del cane su questa circostanza, e anche sul fatto che sul pavimento non si vedeva nulla. Allora, accorgendosi che la sua pantomima era stata scoperta, si rimpiattò sotto un mobile, chiaramente sopraffatto dalla vergogna” (Sommer, V., 1999, Elogio della menzogna. Per una storia naturale dell’inganno, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 118-119).
Il canone di Morgan rappresenta il rasoio di Occam dell’etologia ed è oggi accusato di essere un principio eccessivamente positivista e riduttivo. Penso che quando sentiamo i nostri amici che proiettano il proprio mondo sui loro animali e parlano acriticamente di gatti o cani che sono “rispettosi”, “altezzosi”, “in vena di scherzare”, “discoli” ecc., sia opportuno ricordarlo. Senza nulla togliere, naturalmente, ai diritti di cui gli animali, come tutti i viventi, devono godere.