Per Cicerone l’amicizia è «un’intesa sul divino e l’umano congiunta a un profondo affetto» che può esistere solo tra boni viri, cioè, in sostanza, tra uomini dediti al bene pubblico. Per Montaigne, l’amicizia «si alimenta della comunicazione» ragion per cui non potrebbe esistere, ad esempio, in un rapporto in cui vi sia troppa disparità come quello tra genitori e figli in quanto «né tutti i pensieri segreti dei padri si possono comunicare ai figli per non ingenerare in essi una sconveniente dimestichezza, né gli avvenimenti e gli ammonimenti che costituiscono uno dei principali doveri dell’amicizia si potrebbero esercitare da parte dei figli verso i padri». Del resto, aggiunge Montaigne, «quelli che noi chiamiamo di solito amici ed amicizie, non sono che conversazione e familiarità legate per qualche occasione o vantaggio, per mezzo delle quali le nostre anime comunicano tra loro».
Cinque secoli prima di Cristo, Confucio indicava cinque tipi fondamentali di relazioni interpersonali. I primi quattro – tra imperatore e suddito, tra padre e figlio, tra uomo e donna e tra fratello maggiore e fratello minore – sono caratterizzati dall’esistenza di una gerarchia fra superiore e inferiore. La quinta – l’amicizia – è l’unica non gerarchica e ha luogo solo tra uguali.
Per il sociologo Francesco Alberoni, autore di un celebre saggio dedicato all’amicizia, «dall’amico mi aspetto che condivida l’immagine che ho di un me stesso o, perlomeno, che non se ne allontani troppo. Anche se la sua valutazione è positiva, non deve essere esagerata. Se è troppo favorevole mi dà l’impressione di adulazione. Se è troppo negativa, se si allontana troppo da ciò che io penso di me, allora non mi rende giustizia e, quindi, contraddice una esigenza base dell’amicizia. I due amici, cioè, devono avere delle immagini reciproche simili. Non identiche, naturalmente, perché allora non ci sarebbe nulla da scoprire, ma senza eccessive dissonanze. Da un amico, perciò, io mi aspetto che non mi fraintenda. Tutti mi possono fraintendere, ma non un amico. Se un amico mi fraintende, è finita». E ancora: «l’amore è sublime e miserabile, eroico e stupido, mai giusto. Il registro della giustizia non è l’amore, è l’amicizia».
Come è evidente, al di là delle differenze di definizione, l’amicizia nei saggi appare contraddistinta da un rapporto di eguaglianza, di simmetria, di giustizia, di parità. Se questo è vero, come si spiega il detto secondo cui “il cane è il migliore amico dell’uomo”? Può mai esistere amicizia tra due esseri tra i quali, per definizione, non può esistere eguaglianza, simmetria e giustizia? A leggere tra le righe, mi sembra che ci sia una buone dose di cinismo in questo detto. Una possibile chiave interpretativa potrebbe essere: dal momento che la “vera” amicizia, quella di cui parlano i filosofi, esiste solo raramente, l’uomo può avere per amico, per lo più, solo un essere che si conforma supinamente ai suoi desideri, alle sue aspettative, ai suoi bisogni; un essere che non lo contraddice mai, che si presta a ogni suo volere; che si piega ad accogliere ogni proiezione del “padrone” e ogni suo antropomorfismo (mi è capitato in una libreria di sentire una donna dire al proprio cane con voce stridula: «Hai visto? Mamma, ti ha portato per la prima volta in una libreria!»); che si lascia imporre senza protestare ritmi di vita, modi di esistenza, di alimentazione, di riproduzione; che è “disponibile” a qualsiasi forma di rimprovero, maltrattamento, cattivo umore; che non sa dire no o i cui no non sono spesso compresi (in questi casi il cane “si comporta male” e se attacca l’uomo è addirittura “mostruoso” e da abbattere). Il cane può essere al più “fedele” – altro termine antropomorfo che in realtà non significa niente perché la fedeltà “vera” presuppone capacità cognitive che non sono proprie del cane, anche se ci ostiniamo ad attribuirle agli animali – ma mai “amico”. Eppure, la nostra ipocrisia non può fare a meno di etichettare come “amicizia” il rapporto tra uomo e cane: un rapporto asimmetrico, “padronale”, gerarchico, mai egualitario, equo, simmetrico. Così, il detto finisce con il rivelarci un aspetto dell’uomo che può non piacerci, ma che si manifesta in maniera esemplare e cinica (termine che, come è noto, deriva da “cane”) proprio nel rapporto con il suo “migliore amico”: gli esseri umani mal tollerano l’eguaglianza, la parità, la simmetria. Hanno bisogno di dominare, imporsi, farsi obbedire e adulare. E, quando non ci riescono con altri esseri umani, lo fanno con gli animali che, in questo modo, diventano i loro “migliori amici”. «Da un amico», afferma Alberoni, «io mi aspetto che non mi fraintenda». Eppure, il rapporto tra uomo e cane si regge su un colossale fraintendimento che si regge su tanto antropomorfismo e tanta ineguaglianza.