Come si costruiscono i legami sociali nella contemporaneità? Una volta questo processo di costruzione era affidato a istituzioni come la Chiesa, il partito, il sindacato, lo Stato, la scuola, la famiglia e a strutture simboliche come le grandi ideologie (le “grandi narrazioni” di Lyotard) e la religione (anch’essa una forma di grande narrazione). Oggi partiti e sindacati appaiono aver fallito nei loro scopi e sopravvivono per quella inerzia che caratterizza sociologicamente le istituzioni; la Chiesa ha cessato di essere il grande centro aggregatore di una volta ed è dilaniata da mille contraddizioni; stesso discorso vale per la scuola, emblema del lavoro precario e intellettuale frustrato più che di crescita e apprendimento; lo Stato e il Parlamento appaiono soggetti sempre più distanti e autoreferenziali, mentre i loro riti – le elezioni, le feste laiche – sono percepiti come liturgie stanche impossibili da vivificare. La famiglia sembra godere ancora di forti consensi in un paese familistico come l’Italia, ma già si prospettano “minacciosi” i tentativi di contestarne la “naturalità” ideologica, in nome di configurazioni plurime in cui non tutti sono disposti a riconoscersi. Tutti sappiamo che le grandi ideologie non esistono più, se non in forma parodistica, e che viviamo in un’epoca povera di entusiasmi morali e ideali. Il sogno della rivoluzione è stato soppiantato dal sogno della “riforma a costo zero”, anche se naturalmente una grande ideologia sussiste ed è quella neoliberista, talmente potente e ubiquitaria da apparirci “senso comune”. Del resto, come ci insegna la sociologia della conoscenza, appena un’ideologia ha la meglio sulle altre, si impone come pensiero unico, ciò-che-tutti-sanno-e-hanno-sempre-saputo, natura, conoscenza indiscutibile.
Dato questo sfondo, torniamo alla domanda iniziale: come si creano i legami sociali nella contemporaneità? In maniera necessariamente effimera e per via negativa. Pensiamoci. Quando si creano situazioni di forte effervescenza collettiva? Quelle situazioni che ci fanno sentire una cosa sola con tutti? Al giorno d’oggi ciò accade nel corso di eventi sportivi e in occasione di tragedie, disastri e grossi atti devianti. Una delle poche etichette che tiene, che aggrega è quella sportiva: fare il tifo per la stessa squadra, soffrire insieme per essa, gioire misticamente per le sue vittorie sono alcune delle esperienze “collettive” per eccellenza della contemporaneità e uno dei pochi casi in cui sventolare la bandiera del proprio paese sembra conservare un senso, per quanto limitato alla durata dell’evento sportivo. Siamo patrioti solo quando la squadra nazionale vince. Ma anche quando toccano i “nostri marò”, che hanno ucciso, ma sono innocenti, anzi prossimi alla beatificazione, secondo l’opinione pubblica, perché appunto “nostri”. D’altra parte, recuperiamo un senso di solidarietà in occasione di gravi eventi criminali. Pensiamo all’uccisione di Yara Gambirasio e alla capacità che ha e ha avuto di costruire unione, mobilitare sentimenti, passioni, voglia di comunicare con gli altri; di scatenare opinioni, di imporci di dire la nostra, di riscoprire valori morali che non sapevamo più di avere, di fronteggiare il mostro. Ecco, mi sembra che la nostra epoca abbia un grande bisogno di mostri. Lo diceva già tanto tempo fa Durkheim:
Il delitto avvicina quindi le coscienze oneste e le concentra. Basta per questo considerare ciò che succede soprattutto in un piccolo centro, quando uno scandalo morale è appena stato commesso: ci si ferma per via, ci si rende visita, ci si ritrova in luoghi convenuti per parlare dell’avvenimento ci si indigna in comune. Da tutte le impressioni simili scambiate, da tutte le collere espresse, deriva una collera unica, più o meno determinata secondo i casi, che è la collera di tutti senza essere quella di nessuno in particolare. È la collera pubblica.
Questa dinamica teratogena attraversa le nostre esistenze come una necessità inquietante. Forse perché in una società in cui non riusciamo a costruire in positivo possiamo sentirci vivi solo in negativo, reagendo a eventi spiazzanti e inaspettati. Ecco, la nostra mi sembra una società della reazione piuttosto che dell’azione. Aspettiamo apatici che qualcosa avvenga per poi reagire mobilitandoci, presi da “collera pubblica”. E pensiamo di sentirci vivi.
Se non disturbo dottore vorrei lasciare un mio contributo. Riguardo all’azione: da una parte vorrei provare il misticismo politico che provava mio padre quando partecipava ai grandi incontri politici della sinistra (scioperi, manifestazioni) e non ne nego il valore storico; dall’altra il mio senso di realtà, il mio carattere (e forse la mia incapacità di “uscire dal sistema” neoliberista e guardarlo dal di fuori) non me lo consentono. Tanto meno gli eventi sportivi, nei quali mi sembra sgorghi un patriottismo un po’ ipocrita e superficiale; anche se non voglio cadere nello snobismo e penso che le persone abbiano il diritto di festeggiare per ciò che le rende felici, foss’anche per un solo attimo. Riguardo alla reazione: a me pare abbiamo bisogno di mostri (per sentirci diversi da essi) e di eroi (per sperare di condividere con essi qualcosa), e questo credo sia qualcosa di culturalmente fissato. Il problema è che la narrazione televisiva, ancora il media più penetrante e diffuso, ce ne offre a iosa e nutre i lati morbosi della nostra curiosità con una efficacia prima sconosciuta: la vivida immediatezza delle immagini (in tempo quasi reale) ci consegna mostri ed eroi con un’impatto emotivo impensabile in un libro, in un racconto, ma nello stesso tempo ce li appiattisce in immagini a 2 dimensioni (in senso proprio ed anche metaforico), li priva della complessità propria dell’essere uomini. Forse anche questo è, in realtà, “richiesto” ed i media non fanno altro che darci ció che la nostra parte semplice ed immediata, non ragionata, richiede. Almeno così mi parrebbe. Cari saluti.
Grazie per il suo contributo con il quale concordo in pieno. Aggiungo solo che, a mio avviso, non dobbiamo temere di passare per snob quando mettiamo in evidenza la natura narcotica dello sport o di altri eventi della contemporaneità. E lo dico io che sono tifoso. Sì abbiamo bisogno di narrazioni semplici con cui identificarci. Da sempre. Solo non smettiamo mai i nostri panni critici. Mai.