Ormai lo sappiamo (o dovremmo saperlo). La vista, l’udito e gli altri sensi non funzionano come apparecchi di registrazione che immagazzinano ciò che c’è là fuori così com’è. La percezione è un fenomeno estremamente complesso e articolato, a cui contribuiscono fattori di natura fisiologica, psicologica, sociologica, antropologica e culturale che frappongono e compongono filtri, mediazioni, canali interpretativi che finiscono con l’alterare del tutto la rappresentazione ingenua che ancora abbiamo della percezione come di una funzione diretta, immediata e passiva.
Facciamo qualche esempio. Oggi sappiamo che è praticamente impossibile vedere e udire tutto ciò che si presenta alla vista o all’udito. L’attenzione seleziona sempre ciò che è più rilevante per l’individuo e ciò si riflette poi nel ricordo che non è un processo passivo di recupero di un’informazione data, ma è a sua volta soggetto a meccanismi di filtro, selezione e costruzione. La rilevanza, a sua volta, dipende da vari fattori: quanto tempo rimane visibile l’oggetto percepito, se questo è o no al centro del campo visivo di chi percepisce, quanto è grande, di che colore è rispetto al resto dell’ambiente, quale è la sua importanza nell’azione, quanto è insolito e altro ancora. L’attenzione è selettiva, inoltre, nel senso che tendiamo a preferire ciò che è in sintonia con le ipotesi, congetture o teorie a noi più care a scapito delle altre. Il tifoso di una squadra di calcio, ad esempio, tenderà a selezionare gli elementi dell’incontro che vedono la propria squadra protagonista. Un innamorato tenderà a selezionare le parole o i gesti dell’amata che confermano le proprie aspettative, spesso a scapito di evidenti contraddizioni. Un individuo adirato riconoscerà nei tratti del viso del suo nemico i segni della causa della sua rabbia. Provate a far cambiare idea a un tifoso o a un innamorato. Impossibile. E questo perché essi “vedono” il mondo in una maniera diversa. Ciò che ci interessa emerge a scapito di ciò verso cui siamo indifferenti. E la percezione si fa guidare dall’attenzione.
Le aspettative sono un altro importantissimo fattore di influenza sulla percezione. Un uomo che aspetti all’angolo della strada la sua ragazza sarà portato a riconoscerla in ogni donna che gli viene incontro. Uno psicoanalista scoprirà organi sessuali maschili e femminili in ogni opera d’arte. Molte ricerche dimostrano che quando ci si aspetta di percepire un certo stimolo, spesso lo si percepisce anche se questo non è presente. In molti studi, è stato fatto credere a dei soggetti di provare caldo o freddo o di vedere cose che non ci sono, semplicemente inducendo determinate aspettative. A molti di noi capita di sentire lo squillo di un telefono quando aspettiamo di essere chiamati. L’attesa per la partenza di un treno può indurre l’illusione che il treno stia partendo, quando in realtà è fermo.
Altri due importanti fattori “distorcenti” sono la speranza e il timore. In psicologia si parla di wishful thinking per sostenere che fatti, resoconti, eventi sono talvolta interpretati secondo i propri desideri piuttosto che secondo l’evidenza dei fatti. In riferimento alla percezione, si ha una situazione di wishful thinking quando si percepisce qualcosa in linea con le proprie speranze e desideri piuttosto che con la realtà.
Oltre che da aspettative, speranze e timori, le percezioni sono condizionate anche dalle conoscenze acquisite. Ad esempio, se incontriamo un amico che non vedevamo da molto tempo, possiamo rimanere turbati dagli inevitabili cambiamenti in cui sono incorsi il suo viso e il suo corpo. Questi cambiamenti possono essere così radicali da compromettere seriamente il riconoscimento. Si tratta in questo caso di un confronto tra le conoscenze fondate sul passato e la realtà del cambiamento fisico. Il senso iniziale di smarrimento suggerisce che la nostra percezione non è affatto un dato nudo e crudo, ma filtra gli stimoli attraverso schemi mentali alimentati dalla memoria.
Caratteristiche di personalità e particolari situazioni sociali possono influire notevolmente sulla percezione. Varie ricerche dimostrano che chi gode di un’autorità superiore viene stimato più alto di quanto non sia in realtà, mentre coloro che hanno una bassa autorità sono valutati più bassi. In altre parole, esiste una correlazione tra status percepito e altezza stimata.
Infine, pensiamo al ruolo svolto dalle categorie con cui interpretiamo il mondo. Le categorie o schemi sono strumenti organizzativi dell’attività percettiva, e agiscono come cornici che consentono di vedere le cose in un certo modo a partire da esperienze del passato e da comportamenti analoghi a quelli che si percepiscono al momento. Tutto ciò fa sì che la mente non rimanga paralizzata di fronte alla molteplicità di stimoli provenienti dalla realtà esterna. Al tempo stesso, però, questo processo può generare seri errori di percezione, come quando le categorie forzano un elemento a entrare in un determinato schema o attribuiscono a un fatto del mondo esterno le caratteristiche di un altro.
Se il ruolo di tutti questi fattori sulla percezione è oggi noto, lo dobbiamo (anche) all’importante articolo di Jerome S. Bruner e Cecile C. Goodman “Value and Need as Organizing Factors in Perception” (1947), oggi, non a caso, considerato un classico della psicologia sociale e qui tradotto da me in italiano per la prima volta (almeno a mia conoscenza).
Bruner e Goodman cominciano con il mettere in discussione l’idea che il soggetto che percepisce sia paragonabile a «uno strumento passivo di registrazione di fattura alquanto complessa». Questa “psicologia in vitro” non rende conto delle complessità della percezione nella vita quotidiana, tanto che i due autori propongono la distinzione tra fattori autoctoni – che «riflettono direttamente le caratteristiche proprietà elettrochimiche degli organi sensoriali terminali e del tessuto nervoso e comportamentali» – e fattori comportamentali, tra cui rientrano meccanismi psicosociali quali la motivazione, la personalità, il temperamento, gli atteggiamenti e i bisogni sociali.
Per Bruner e Goodman, data l’estrema ambiguità del mondo sensoriale, ciò che vediamo «rappresenta una sorta di compromesso tra ciò che è mostrato dai processi autoctoni e ciò che è selezionato dai processi comportamentali», cioè tra fattori psicofisiologici e fattori psicosociali. Tale processo selettivo che avviene nella percezione è definito “ipotesi percettiva” e può essere attivato «da un bisogno, dalla necessità di apprendere un compito o da una qualsiasi richiesta imposta all’organismo dall’interno o dall’esterno».
Bruner e Goodman presentano anche due principi sistematici della percezione che chiamano “compromesso percettivo” e “equivocità percettiva”. Il primo fa riferimento al fatto che la percezione si risolve sempre in un qualche compromesso tra ipotesi percettive diverse; il secondo al fatto che più è grande l’ambiguità percettiva, maggiore è la possibilità che i fattori comportamentali influenzino la percezione.
Detto ciò i due autori offrono tre ipotesi empiriche che si propongono di mettere alla prova. Secondo la prima «più è grande il valore sociale di un oggetto, più i fattori comportamentali influenzeranno l’organizzazione della sua percezione». In base alla seconda, «più è grande il bisogno individuale di un oggetto a cui si attribuisce valore sociale, più sarà marcata l’azione dei fattori comportamentali». Infine, «l’equivocità percettiva facilita l’azione dei fattori comportamentali solo nella misura in cui riduce l’azione dei fattori autoctoni senza ridurre l’efficacia dei fattori comportamentali».
Per provare le loro ipotesi, Bruner e Goodman concepiscono un brillante esperimento in cui tre gruppi di bambini di dieci anni – due sperimentali, composti rispettivamente da dieci bambini ricchi e dieci bambini poveri, e uno di controllo – vengono invitati a stimare le dimensioni di alcune monete – in base al ricordo e in presenza delle stesse – e di alcune rondelle di cartone secondo un dato ordine e con l’aiuto di un particolare congegno descritto in dettaglio.
I risultati sono ancora oggi degni di nota. Innanzitutto, le monete, che sono oggetti a cui è attribuito un valore sociale, furono giudicate dai bambini di dimensioni maggiori delle rondelle grigie. In secondo luogo, i due autori notarono che, maggiore era il valore della moneta, più la stima delle sue dimensioni di discostava dalle dimensioni reali. In altre parole, la percezione era condizionata dal valore degli oggetti percepiti.
L’esito più memorabile dell’esperimento ha a che vedere con il confronto tra le percezioni dei bambini poveri e quelle dei bambini ricchi. Ebbene, i bambini poveri sovrastimarono quasi sistematicamente le dimensioni delle monete in misura considerevolmente maggiore del gruppo dei bambini ricchi.
Dal 1947, anno di pubblicazione di “Value and Need as Organizing Factors in Perception”, sappiamo che innumerevoli altri “fattori comportamentali” agiscono sulla percezione in modo determinante. Ma se ciò lo sappiamo con certezza è soprattutto grazie a questo piccolo, brillante esperimento di due autori geniali, giustamente celebrati in tutti i manuali di psicologia sociale.