I limiti della criminologia televisiva

Nella nostra epoca massmediatica, i “criminologi televisivi” esercitano un indubbio fascino.

Si tratta, di solito, di uomini e donne, (presuntivamente) esperti in una qualche disciplina o che si autoattribuiscono competenze di qualche tipo, che sono periodicamente chiamati a commentare episodi efferati di cronaca nera. L’anfitrione televisivo di turno e il pubblico li ascoltano nemmeno fossero antichi oracoli greci. Si rivolgono a loro per capire i moventi profondi, le ragioni celate degli atti criminosi su cui sono invitati a commentare. Le loro parole sono accolte con una certa definitività. Il loro verbo è quasi sacro.

Eppure, la criminologia televisiva presenta numerosi limiti.

Innanzitutto, i criminologi televisivi basano le loro teorie e spiegazioni su notizie di cronaca costruite per fini giornalistici, non scientifici. I “dati” a loro disposizione non sono solitamente diversi da quelli di cui usufruisce lo spettatore medio. Non hanno condotto ricerche secondo i metodi della criminologia. Del resto, anche se volessero, non potrebbero, dal momento che sono chiamati a commentare a sangue caldo, a tambur battente per così dire. Le loro interpretazioni, in definitiva, non sono molto diverse da quelle dell’uomo (o donna) della strada.

Un altro limite è che la criminologia televisiva serve a fare spettacolo, non a informare. Non si pone finalità accademiche, ma contribuisce al circo mediatico che solitamente circonda ogni delitto efferato. Ciò che conta è produrre effetti, sensazioni, emozioni, brividi o indignazione. Perché sono questi che fanno vendere, che rendono appetibile il prodotto televisivo.

È, poi, da aggiungere che le interpretazioni dei fatti criminosi servono spesso a consolidare stereotipi diffusi o a trovare facili teste di turco da incolpare. Se, ad esempio, un reato viene compiuto da un giovane, partirà la solita reprimenda contro “i giovani d’oggi”, accusati di ogni misfatto. La generalizzazione è frequentemente convocata dai criminologi televisivi, che sanno di trovare il gradimento del grosso pubblico. Lo stesso si può dire di categorie che attirano facile biasimo. Mi riferisco a immigrati, tossicodipendenti, alcolisti, ludopatici, pirati della strada e altri suitable enemies. Anche qui, la generalizzazione è di casa e suscita riscontri positivi degli spettatori medi.

Tornando ai giovani, serpeggia tra i commenti dei criminologi televisivi un certo ageismo di fondo. Il criminologo televisivo è, di solito, una persona matura e (si presume) saggia. Giudica dall’alto della sua posizione sociale e valuta spesso in maniera negativa i giovani, accusati di essere privi di valori e regole, nonostante sia stato egli stesso (o essa stessa) giovane. Non tiene in considerazione il fatto che i ragazzi sono soggetti in età evolutiva e che, per definizione, non posseggono un sistema di valori forte e saldamente interiorizzato. Eppure li rimprovera proprio per questo.

Allo stesso modo, non tiene conto del fatto che le condotte giovanili sono di frequente più espressive che utilitaristiche, ossia rivolte a uno scopo “serio”. Accusa, dunque, gli atti dei giovani di essere privi di senso, anche se, in realtà, un senso ce l’hanno, sebbene non quello strumentale a cui gli individui “maturi” di solito dedicano la propria vita.

Questo tipo di generalizzazione fa sì che ogni comportamento giovanile sia etichettato come predatorio, violento, aggressivo, vandalico, secondo schemi moralistici che il pubblico televisivo condivide.

In questo modo, la spiegazione psicologica o sociologica è, in realtà, una spiegazione moralistica sotto mentite spoglie. Il criminologo televisivo è un moralista, travestito da psicologo, psichiatra, criminologo ecc.

Un’altra pecca del criminologo televisivo è che chiama in causa quasi sempre spiegazioni straordinarie per crimini particolarmente efferati e quindi straordinari. Un delitto inconsueto presuppone sempre moventi inconsueti e spiegazioni, possibilmente, monocausali. Il pubblico televisivo non apprezza spiegazioni complesse. Vuole conoscere immediatamente qual è la causa “unica” dell’evento e il criminologo televisivo sarà più che lieto di accontentarlo chiamando in causa, di volta in volta, l’assenza di valori, il deficit morale, la gelosia, l’invidia, o moventi più aggiornati come il “patriarcato”. Quando non si conosce bene la causa, si scomodano moventi ontologici, legati all’essenza: il colpevole è semplicemente cattivo.

Infine, raramente il criminologo televisivo considera il significato che l’episodio ha per i protagonisti. Il suo è uno sguardo patologizzante, ossia volto alla eliminazione, non alla comprensione del fenomeno. Del resto, se così non fosse perderebbe la chance di essere reinvitato in trasmissione. Il responsabile deve essere inquadrato sempre secondo un’ottica “mostruosa”. È il diverso per eccellenza in cui il bravo borghese non deve avere agio di identificarsi.

I criminologi televisivi sono moralisti votati al trionfo dello spettacolo del male per interessi televisivi. La loro criminologia non ha nulla a che vedere con la criminologia scientifica.

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Una risposta a I limiti della criminologia televisiva

  1. Marco strano scrive:

    Aggiungerei che i “criminologi televisivi” nella stragrande maggioranza dei casi concordano prima le domande che gli saranno poste nel corso della trasmissione e si preparano quattro frasi ad effetto per rispondere. Difficilmente accettano poi un confronto scientifico pubblico con veri criminologi scientifici. Si tratta insomma di opinionisti e non di scienziati. Se rimanessero nell’alveo dell’intrattenimento di un pubblico poco erudito in fondo non sarebbe neanche una cosa grave ma il problema è che poi qualcuno, pensando che siano realmente esperti, gli affida delle consulenze giudiziarie, con esito quasi sempre drammatico.

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