Quello che io considero il più grande peccato cognitivo dell’umanità – la tendenza a generalizzare – è responsabile di uno dei più grandi fraintendimenti da cui ancora oggi sono afflitti gli studenti di liceo italiani: l’idea che i greci del passato fossero tutti sapienti e filosofi, come dimostrano le opere di Platone e Aristotele e la personalità di Socrate. La migliore confutazione di questa credenza è presente in Preface to Plato di Havelock in cui viene ricordato che, quantunque l’alfabeto greco fosse probabilmente vecchio di quattrocent’anni all’epoca in cui Platone scriveva la sua Repubblica,
Atene era ancora in uno stato di semianalfabetismo. Non sempre i giovani greci imparavano a leggere, e quelli che lo facevano iniziavano la loro istruzione nell’adolescenza, non nei primi anni. Non esisteva di certo un vasto assortimento di testi, e la lettura era limitata, per forza di cose, ai documenti pubblici ed alle iscrizioni. I poeti erano scrittori, evidentemente, ma i loro poemi erano composti per essere ascoltati, non letti, e il prodotto finito veniva declamato o recitato. […] la comunicazione orale dominava ancora tutti i momenti più importanti della vita (cit. in Neil Postman, 2019, Ecologia dei media, Armando Editore, Roma, p. 35).
La credenza nella sapienza degli antichi greci si basa evidentemente sulla presunzione infondata che, all’epoca, fossero tutti come Socrate, Platone e Aristotele, perché solo di essi si parla a scuola. Ecco dunque, ancora oggi, nostalgie sul sapere degli antichi contrapposto a quello dei contemporanei, abbruttiti da televisione e computer. Una massa di sapienti vs. una massa di idioti.
Non è così, naturalmente, ma la tendenza irresistibile a generalizzare è sempre dietro l’angolo e produce i suoi guai, nella storia come nella vita quotidiana di ognuno di noi.