In un libro a giusto titolo celebre, I due corpi del Re (Einaudi, 2012), lo storico Ernst H. Kantorowicz illustra una singolare teoria medievale. La teoria, esposta dal giurista elisabettiano Plowden, afferma che
il re ha in sé due corpi, cioè il corpo naturale e il corpo politico. Il corpo naturale (se deve essere considerato per sé) è un corpo mortale, soggetto a tutte le infermità naturali e accidentali, alla debolezza dell’infanzia e della vecchiaia e a tutti i consimili inconvenienti cui vanno incontro i corpi naturali delle altre persone. Ma il suo corpo politico è un corpo che non può essere visto o toccato, consistente di condotta politica e di governo e costituito per la direzione del popolo e la conservazione del bene pubblico, e questo corpo è palesemente privo di infanzia e di vecchiaia e di tutti gli altri difetti e debolezze cui è soggetto il corpo naturale e per questo motivo, ciò che il re fa con il suo corpo politico non può essere invalidato o annullato a causa di alcuna debolezza del suo corpo naturale (p. 7).
Questa finzione medievale dell’identità nel mutamento servì a fondare la ragione della perpetuità terrena della monarchia occidentale inglese e francese e conobbe notevoli estensioni metaforiche e giuridiche, come è evidente in quanto è scritto nella Glossa ordinaria di Accurso:
Come infatti [l’attuale] popolo di Bologna è lo stesso di cento anni fa, anche se oggi sono tutti morti coloro che allora erano vivi, così il tribunale rimane il medesimo anche se due o tre giudici sono morti e sono stati sostituiti da altri. Analogamente [per quanto riguarda una legione], anche se tutti i soldati sono morti e vengono rimpiazzati da altri, si tratta sempre della stessa legione. Ancora, nel caso di una nave, anche se essa è stata parzialmente ricostruita, o anche se ogni singola tavola è stata sostituita, si tratterà comunque sempre della medesima nave (p. 289).
Anche «i canonisti non si stancavano di ripetere che la Chiesa di questo o quel posto o paese rimaneva la stessa anche se tutti i suoi membri morivano o venivano sostituiti da altri; o che il collegium o capitolo di una cattedrale era “oggi il medesimo di cento anni fa anche se le persone non erano le stesse”» (p. 303).
I tifosi di calcio nostri contemporanei sembrano condividere la finzione medievale e mistica dei due corpi del Re a tal punto che la applicano alla loro squadra del cuore. Anche se tutti i giocatori che hanno contribuito a costruire la sua identità calcistica sono morti nel tempo, essa continua immutata nella simbologia degli appassionati, permanendo l’identità nei colori della maglia. «I giocatori vanno e vengono» dicono i tifosi, «ma i colori restano e resteranno per sempre». Pensieri, atteggiamenti e visioni degli appassionati di calcio sono, dunque, improntati a una teologia medievale panteisticamente diffusa e, certo, non avvertita in quanto tale dai protagonisti. Ciò conforta l’idea di quanti credono che il tifo abbia qualcosa di primitivo, regressivo, poco civilizzato nelle sue espressioni, ma anche di chi ritiene che il calcio sia l’ultimo avamposto del sacro, del mistico, dell’eterno in una società secolarizzata come la nostra. Può sembrare una esagerazione, ma in poche altre dimensioni della vita contemporanea è dato trovare una affinità così stretta con il tema dei due corpi del Re, così efficacemente descritto da Ernst H. Kantorowicz, come nel calcio.