Quali sono gli effetti morali del contagio? Chi scopre di avere il virus diventa più retto, buono, saggio, altruista? O, al contrario, diventa più egoista, sconsiderato, maligno, invidioso?
Secondo alcuni, la malattia avrebbe la capacità di indurre a riflettere su se stessi, su ciò che si è fatto nella vita, sui progetti per il futuro, sul significato generale dell’esistenza. Questa riflessione comporterebbe una maggiore introspezione e favorirebbe una forma di saggezza che conduce a rivedere le proprie priorità, a dare importanza alle cose e alle relazioni che contano, a riscoprire affetti, amicizie e sentimenti dati per scontati, a superare le meschinità della vita quotidiana e a dedicarsi a obiettivi superiori.
Secondo altri, invece, la malattia renderebbe chi ne è affetto più egocentrico, cinico e disilluso, oltre che, in alcuni casi almeno, più “cattivo”. Per la psicoanalisi, ad esempio, la malattia determina un ritiro della libido sul proprio ego che predispone ad atteggiamenti narcisistici e a una perdita di interesse verso l’esterno. Il contagiato, dunque, tenderebbe a provare distacco, se non odio, verso gli altri, i sani, e, soprattutto se disperato per le proprie condizioni, potrebbe adottare un atteggiamento all’insegna del “mal comune mezzo gaudio”, provando addirittura piacere nel contagiare gli altri.
Lo testimonia il caso dei cosiddetti “untori seriali”, individui affetti da malattie contagiose che si dedicano a infettare il maggior numero possibile di persone. Questa figura è divenuta famigerata soprattutto con la comparsa dell’AIDS. In Italia, ricordiamo Valentino Talluto, accusato di aver contagiato 57 donne in 10 anni. All’estero si ricordano i nomi dell’attore Charlie Sheen, di Nushawn Williams e di Eric Aniva. La figura del contagiatore seriale è entrata a tal punto nel nostro immaginario da aver prodotto una delle più note leggende urbane ancora oggi note. Una narrazione semplificata di questa leggenda è la seguente: un giovane conosce in discoteca una ragazza mai vista in precedenza. I due ballano tutta la sera, per poi trascorrere la notte insieme. Al risveglio, il giovane scopre che la ragazza è sparita e che ha scritto col rossetto sullo specchio del bagno la frase “Benvenuto nel mondo dell’AIDS”.
Le domande sulla maggiore propensione alla malvagità delle persone contagiate non sono appannaggio della contemporaneità. Daniel Defoe (1660-1731), nel suo Journal of the Plague Year (1722), si poneva esattamente gli stessi interrogativi, mostrando una capacità introspettiva che farebbe invidia ancora oggi a parecchi psicologi.
A rendere diffidenti gli abitanti delle campagne verso chiunque provenisse da Londra, in special modo se era povero, contribuiva il fatto che le persone infette sembravano avere una malvagia inclinazione ad infettare gli altri.
I medici hanno discusso a lungo tra di loro sui motivi di questa presunta inclinazione.
Alcuni la spiegano asserendo che il male stesso suscita nell’infermo un furore d’odio contro i propri simili pressappoco come quello che l’idrofobia fomenta nei cani spingendoli a mordere qualunque animale o persona incontrino sul loro cammino.
Altri l’attribuiscono invece alla perfidia dell’umana natura per la quale un uomo non può tollerare di vedersi in uno stato più infelice di quanti lo circondano e istintivamente, involontariamente, desidera che tutti gli uomini soffrano come soffre lui.
Altri infine l’attribuiscono alla disperazione che assale l’infermo e lo porta a non aver riguardi per i pericoli cui espone se stesso e il prossimo. E invero quando un uomo si riduce a un stato tale di abbandono che non si cura più della propria salvezza, non vi è da stupirsi se, alla stessa stregua, non si curi della salvezza altrui.
Ma io credo che il fatto in sé, di una inclinazione generale degli infermi ad infettare gli altri, non sia completamente vero. A mio giudizio l’idea di un’inclinazione simile venne messa in giro dagli abitanti dei villaggi vicini a Londra per giustificarsi dell’eccessiva severità con la quale trattarono, durante tutto il tempo della pestilenza, i fuggiaschi della metropoli. Questi ultimi, invero, quando si vedevano tagliati fuori da ogni via di scampo e ricacciati indietro, accusavano i primi di crudeltà e di ingiustizia. E di conseguenza i primi, per difendersi, tiraron fuori la storia che le persone infette, numerose tra i fuggiaschi, non soltanto non avevan riguardi verso gli altri, ma erano addirittura animate dalla malvagia volontà di comunicar loro l’infezione.
Certo un fondamento di verità avevano entrambe le accuse, però molto leggero, e quella che riguardava i poveri appestati lo aveva più leggero dell’altra. In effetti gli appestati diventavano pericolosi nel senso indicato solo quando avevano il delirio, e a combatter questo pericolo c’era il provvedimento, per altri versi dannoso, del chiudere le abitazioni e cosi confinarvi, sotto la sorveglianza continua dei guardiani messi sulle porte, gli infermi. Pure è comprensibile, date le condizioni in cui quella sorveglianza veniva esercitata, e le fughe frequenti dei confinati, che qualche fatto increscioso accadesse (Defoe, D., 1995, La peste di Londra, Bompiani, Milano, pp. 150-151).
Odio, perfidia, disperazione, invidia – spiega Defoe – potrebbero essere la causa della malvagità dei contagiati. In realtà, tali sentimenti negativi potrebbero essere il frutto delle proiezioni dei sani sui malati, un meccanismo di difesa finalizzato a giustificare e neutralizzare gli atteggiamenti negativi dei primi sui secondi e che è, poi, lo stesso meccanismo che è alla base della creazione del capro espiatorio. Scagliando simbolicamente la colpa sull’altro da sé, il sano riuscirebbe così a percepirsi come puro e incontaminato, individuando nell’oggetto delle sue proiezioni la causa di ogni male.
Si tratta, come è evidente, di dinamiche psicologiche sottili, spesso inconsapevoli, che confermano ulteriormente il fatto che la malattia, virale o di altro tipo, non è solo una faccenda medica, ma anche psicologica, morale, sociale e simbolica.