Tra i luoghi comuni più resistenti e stolidi sulle comunità migranti in Italia, c’è sicuramente quello secondo cui “i cinesi non muoiono mai”. «Avete mai visto un funerale cinese?» vi domanderà chi crede in questo luogo comune. «No», continuerà l’entusiasta, «e sapete perché? Perché quando un cinese muore i suoi resti sono serviti come pietanze nei ristoranti cinesi, mentre la sua identità burocratica viene affibbiata a un immigrato clandestino. Tanto sono tutti uguali. Figurati se in Italia sanno distinguerli».
Ecco che, con poche parole, viene fornito un quadro minaccioso e inquietante dell’immigrato cinese, dipinto come disumano, mostruoso, cannibale e fraudolento; qualcuno di cui diffidare per principio, sicuramente da non frequentare né avvicinare in alcun modo, se non si vuole mettere a rischio la propria vita. Già in questa descrizione emergono le stimmate comuni del luogo comune a scopo diffamatorio, così tipiche di tante dicerie sugli immigrati. Se si va, però, ad analizzare con un po’ di buon senso lo stereotipo in questione, ci si rende conto che le cose non stanno affatto come esso vorrebbe.
Innanzitutto, l’età media dei cinesi residenti sul nostro territorio è inferiore alla nostra, in quanto, come dovrebbe essere noto, gli immigrati sono per lo più giovani e tra loro, quindi, il tasso di mortalità è più basso rispetto a quello degli italiani.
In secondo luogo, i cinesi di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, sono registrati all’anagrafe come italiani e come tali appaiono nelle statistiche sui decessi.
In terzo luogo, i cinesi anziani decidono spesso di tornare nel paese di provenienza per trascorrere l’ultima fase della loro esistenza. Di conseguenza, muoiono in Cina e non in Italia.
In quarto luogo, se è vero che non è facile vedere un funerale cinese, è vero anche che non è facile vedere un funerale marocchino, albanese, rumeno, ucraino, senegalese, ghanese o polacco, sebbene stiamo parlando delle comunità straniere più diffuse in Italia. A pensarci bene, non è facile vedere nemmeno un funerale italiano dal momento che, come fanno notare vari sociologi, nella contemporaneità, la morte è praticamente scomparsa come evento pubblico (i cortei funebri sono ormai una rarità, soprattutto in ambiente urbano).
In quinto luogo, se si va a fare un po’ di ricerca, come hanno fatto Lidia Casti e Mario Portanova in Chi ha paura dei cinesi? (BUR, Milano), i cinesi nei cimiteri italiani ci sono: «E, sorpresa, non stanno sempre tra di loro come si ostinano a fare in vita, ma si mischiano ai defunti italiani. Le loro tombe sono in mezzo alle nostre e sono uguali alle nostre. Inutile cercare una Chinatown in versione necropoli» (p. 44). Se ci sono tombe cinesi, ci sono anche funerali cinesi, come quello di un notabile della comunità che, nel 2006 a Torino, fece parlare persino la stampa locale in quanto il suo corteo funebre era composto da diciotto carri, uno per il feretro e gli altri per le corone di fiori (p. 45).
Insomma, il luogo comune dei “cinesi che non muoiono mai” si rivela del tutto infondato. La sua sopravvivenza nel tempo risponde però a una esigenza tipica dei luoghi comuni nei confronti delle comunità migranti: quella di preservare e perpetuare diffidenza e ostilità nei loro confronti. Del resto, i luoghi comuni sui cinesi abbondano: “i cinesi mangiano solo riso”, “i cinesi lavorano tutti in nero”, “i cinesi sono tutti uguali”, “i cinesi sono tutti bassi” e via stereotipando.
Quando ci troviamo di fronte a narrazioni del genere, dovremmo chiederci non tanto (o non solo): “Sono vere?”. Ma anche: “Perché vengono diffuse?”. La risposta alla seconda domanda può essere più interessante di quella fornita alla prima.