La nostra terra. I nostri colori. Le nostre radici.
Oggi, la retorica del suolo nativo imperversa come non mai, forse alimentata dall’arroganza del vento della globalizzazione a ogni costo e dalla necessità di trovare un appiglio a cui aggrapparsi nel mare dell’incertezza dei punti di riferimento. Al di là di ogni giustificazione, mi sembra però evidente che tale retorica produca degli eccessi: in primis, il conferimento di un valore assoluto a tutto ciò che è nostro, che viene dal paese, dalla contrada, dalla parrocchia con la conseguenza di generare sospetto nei confronti di ciò che viene da fuori, è esotico, o forse distante solo pochi chilometri dal nostro pezzo di terra. A questa visione, aderiscono spesso anche intellettuali, poeti, scrittori, filosofi, tutti impegnati a magnificare l’ombelico del mondo del loro borgo natio, che del resto, come impongono le leggi del turboturismo contemporaneo, va valorizzato a ogni costo, dio voglia che diventi patrimonio Unesco. E così chi pensa gioca a radicarsi, a esaltare il genius loci, a barricarsi dietro il folklore endogeno, tanto ci sarà sempre una festa da riportare in vita, un patrono da riattualizzare, un borgo da vivificare. E tutto questo passa per cultura.
A questa retorica, mi piace contrapporre un passo del classico di Julian Benda, Il tradimento dei chierici, sicuramente datato, ma ancora capace di guizzi stimolanti. Ecco che cosa dice a proposito dei chierici (intellettuali) della prima metà del XX secolo:
I chierici moderni […] dichiarano che il loro pensiero può essere buono, dar frutti solo a patto di non abbandonare il suolo natale, di non «sradicarsi». […] E questa legge non viene proclamata soltanto per i poeti, ma per i critici, i moralisti, i filosofi, i cultori dell’attività puramente intellettuale. Dichiarare che lo spirito è buono in quanto rifiuta di liberarsi dalla terra: ecco che cosa assicura ai chierici moderni un posto di rilievo negli annali del potere spirituale. I sentimenti di questa classe sono evidentemente cambiati da quando Plutarco insegnava: «L’uomo non è un albero, fatto per restare immobile e con le radici piantate nella terra dov’è nato», o Antistene rispondeva ai suoi confratelli, fieri d’essere autoctoni, che essi condividevano questo onore con le chiocciole e le cavallette (Julien Benda, 1976, Il tradimento dei chierici, Einaudi, Torino, p. 109).
Oggi, in tanti preferiscono condividere onori con chiocciole e cavallette. Si “intercettano” i fondi dell’Unione Europea e si acquistano lodi e tributi. Certo, in questo modo, si perde quel carattere astratto, disinteressato, razionale che dovrebbe essere proprio dell’intellettuale, ma vuoi mettere con la rinascita del maialino nero casertano e della mocetta valdostana?