Sono in un ristorante. Davanti a me una bambina e la madre. Alla bambina non do più di dieci-undici anni. È alle prese con un mediterraneo piatto di spaghetti al sugo che mostra di saper avviluppare con una certa destrezza; abilità evidentemente acquisita nei suoi anni di apprendistato alimentare italiano. Improvvisamente, una enorme patacca rossa si riversa dalla forchetta alla t-shirt bianca della preadolescente con grande disappunto della genitrice che non può fare a meno – del resto è il suo ruolo a imporlo – di rimproverarla per la distrazione. Il disastro è evidente e a nulla servono fazzoletti e altri rimedi maldestri. Quella macchia peserà sulla coscienza della bambina per il resto della serata. «E poi», aggiunge la madre, «i capi bianchi si macchiano più facilmente. Non potevi indossare la t-shirt nera?».
L’idea che i capi bianchi “si macchino più facilmente” l’ho sentita tante volte. È un luogo comune della pedagogia delle mamme italiane (ma anche dei padri) ed è di solito accolta come un luogo comune indiscutibile, un fatto dato per scontato e trasmesso di bocca in bocca come la più ovvia delle verità. Semplicemente, se non volete macchiarvi, non dovete indossare capi bianchi. In realtà, la proposizione nasconde un errore fondamentale: confonde la percezione con una qualità intrinseca. In altre parole, si attribuisce ai capi bianchi una qualità – quella di macchiarsi più facilmente – che, in realtà, non è una caratteristica distintiva dei tessuti bianchi, ma del maggior risalto percettivo che le macchie hanno sui tessuti bianchi. A ben pensarci, questa “confusione” tra fatto e percezione è comune anche ad altre situazioni. Ad esempio, si accusano i Rom e le persone di pelle nera di “puzzare” come se la puzza fosse una loro qualità peculiare e non il risultato di standard igienici diversi (spesso involontariamente diversi) dai nostri. Nel passato, i paesi di accoglienza accusavano gli emigranti italiani di essere scuri di pelle, quando questo era frutto della maggiore esposizione al sole favorita dalla dedizione al tradizionale lavoro nei campi. Un tempo, si riteneva che le donne non potessero essere grandi scrittrici o artiste nonostante ciò fosse dovuto alla scarsa istruzione e pratica artistica che era loro concessa. In altre parole, si scambiava la poca creatività letteraria e artistica delle donne per un difetto innato – la qualità intrinseca – dimenticando che tale insufficienza era figlia di una precisa scelta pedagogica dell’epoca che aveva come conseguenza una inadeguata inclinazione intellettuale (percezione).
Insomma, sembra proprio che esse est percipi come sosteneva il vescovo Berkeley nel Settecento. Almeno per il senso comune. Se però andiamo al di là dei limiti della nostra percezione – e dei luoghi comuni – ciò non risulta necessariamente vero. Anzi, le percezioni possono indurre in noi pensieri sbagliati e angusti che alimentano stereotipi e ovvietà banali dalle conseguenze disastrose. Ben più disastrose di una macchia di sugo su una t-shirt bianca.