Di sogni premonitori si parlava anche ai tempi di Dante.
Sapete, ad esempio, che gli ultimi tredici canti del Paradiso furono ritrovati grazie a una visione apparsa in sogno al figlio del poeta, Iacopo? Lo dice Giovanni Boccaccio nel cap. XXVI del suo Trattatello in laude di Dante, pubblicato a stampa per la prima volta nel 1477 con il titolo di La Vita di Dante.
Ecco il testo del sogno:
Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de’ quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasioni d’alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciò che imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto più che l’altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi trovare.
Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l’ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino all’ora che noi chiamiamo mattutino, venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella notte, poco avanti a quell’ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi vestimenti e d’una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare s’egli vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora domandare, se egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla vera vita, e, se compiuta l’avea, dove fosse quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta udire per risposta: Sì, io la compie’; e quinci gli parea che ‘l prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella, dicea: Egli è qui quello che voi tanto avete cercato. E questa parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non avesse potuto stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono una stuoia, al muro confitta, la quale leggiermente levatane, videro nel muro una finestretta, da niuno di loro mai più veduta, né saputo ch’ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per l’umidità del muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole, videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l’usanza dell’autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita.
Che pensare del sogno?
Innanzitutto, è opportuno notare che esso non è raccontato al Boccaccio direttamente da Iacopo, bensì tramite la mediazione di un tal Piero Giardino, definito discepolo di Dante. È evidente che in questo doppio passaggio (da Iacopo a Piero Giardino e da questi al Boccaccio) la storia può essere stata, intenzionalmente o accidentalmente modificata, enfatizzando particolari dettagli o inventandone di sana pianta altri (È un po’ il problema dell’origine delle leggende metropolitane che, diffondendosi di bocca in bocca, non solo rendono spesso ineludibile l’identità del loro iniziatore, ma fanno sì che sia vano anche tentare di rintracciarlo).
In secondo luogo, Boccaccio era noto per gli elementi di fantasia con i quali adornava quello che scriveva, anche se proveniente dalla realtà. Lo conferma, in un’edizione critica dell’opera risalente al 1888, Francesco Macrì-Leone, il quale scrive: «Ad ogni modo il Boccaccio lo ha accolto [il sogno], e, al solito adornato e abbellito colla sua fantasia». Ciò potrebbe significare, commenta ancora Macrì-Leone, che Iacopo può avere effettivamente ritrovato gli ultimi 13 canti del Paradiso, anche se non nelle forme che descrive il Boccaccio nel suo libro. Libro che, fra l’altro, è molto poco critico, nel senso che l’autore del Decameron attinse, per scriverlo, a qualsiasi fonte gli capitasse di incrociare, senza porsi più di tanto problemi di affidabilità.
Dobbiamo, infine, ricordare che tutta la vicenda si svolge nel Medioevo, un periodo caratterizzato da un rapporto molto diverso, rispetto a quello che potremmo avere noi, nei riguardi del soprannaturale, del religioso e dei sogni.
Di più non possiamo dire, se non che, in questo come in altri casi di sogni premonitori più o meno famosi, la mancanza di informazioni rilevanti spesso impedisce di esprimere giudizi certi sul fenomeno in questione.
Non si trattava di un posto improbabile. La camera da letto dove il Poeta dormiva! Si trattava, in fondo, solo di riprovare. Forse con un’idea balzata d’improvviso in mente, e forse, perchè no, in un sogno – dopotutto, la persona di Dante era talmente dominante che sicuramente la gente sognava di lui. Ma credo che la perdita e riscoperta degli ultimi tredici canti sia credibile. A che servirebbe inventarla?