Harry Harlow (1905-1981) è ancora oggi uno degli psicologi più citati al mondo. I suoi esperimenti sono presenti in ogni libro di psicologia e non esiste probabilmente studente della disciplina che non si sia confrontato prima o poi con le sue teorie.
Harry Harlow fu anche uno degli psicologi più singolari che la storia ricordi. Innanzitutto, per ciò che decise di studiare. Prima di lui, pochi avevano eletto l’amore a oggetto di analisi e pochissimi avrebbero osato inserire la parola all’interno del titolo di un articolo accademico. Al più avrebbero scelto la parola attachment (“attaccamento”, “affetto”). Invece, il titolo dell’articolo di Harlow più noto è addirittura The nature of love (1958). Pretenzioso, oltre che singolare. Non solo. Contrariamente alla tendenza accademica ad assegnare nomi “neutri” ed etimologicamente greci o latini a ciò che accade nella mente umana o agli strumenti per esaminarla, Harlow non disdegnò termini poco convenzionali, se non scandalosi, quali rape rack (“ruota dello stupro”) per designare uno strumento congegnato per forzare l’accoppiamento sessuale tra animali; iron maiden (noto strumento di tortura), per indicare un aggeggio per tormentare le “madri surrogate” (ci torneremo fra poco); pit of despair (“fossa della disperazione”) per riferirsi alla camera di isolamento in cui teneva i suoi soggetti sperimentali. Infine, come vedremo tra poco, non ebbe alcuno scrupolo ad utilizzare animali per i suoi esperimenti, diversi dei quali non furono certamente felici di prendervi parte.
Ma torniamo all’inizio. Come detto, Harlow fu uno dei primi a indagare l’amore da un punto di vista sperimentale. Fino a quel momento, come egli stesso riconobbe, l’amore era stato appannaggio di poeti e romanzieri. Non solo. Sebbene chi parla di amore lo faccia di solito in riferimento ai sentimenti tra adulti, Harlow preferì dedicarsi a esplorare l’amore tra madre e figli nella convinzione che ciò potesse illuminare un aspetto fondamentale della dimensione umana.
La posizione sostenuta dagli psicologi e dai sociologi dell’epoca di Harlow era che le pulsioni fondamentali dell’uomo fossero la fame, la sete, il sesso e l’eliminazione del dolore, mentre l’amore e l’affetto figuravano tra gli impulsi secondari. Convinto del contrario, Harlow indagò sperimentalmente l’importanza delle variabili stimolo che determinano la risposta affettiva nel neonato.
Non potendo condurre esperimenti sui piccoli degli umani (per ovvie ragioni, Harlow decise di utilizzare piccoli macachi reso di età compresa tra i due e i dieci giorni di vita. I macachi venivano separati dalle madri tra le sei e le dodici ore dopo la nascita e alimentati con un biberon, che, a dire dello psicologo, garantiva un nutrimento maggiore di quanto avrebbero potuto fare le genitrici (forse solo un modo per svincolare la propria coscienza).
Harlow si accorse che i piccoli macachi sviluppavano un attaccamento affettivo nei confronti dei panni di stoffa collocati nelle gabbie per ricoprirne il fondo al punto che, se venivano rimossi, gli animali si infuriavano. Harlow notò anche che, se il fondo della gabbia era costituito da una semplice rete metallica, le scimmie sopravvivevano a stento nei primi cinque giorni di vita e talvolta morivano. I panni di stoffa agivano da oggetti transizionali che offrivano enorme sollievo psicologico in un contesto deprivato di stimoli confortanti.
A questo punto, Harlow decise di studiare lo sviluppo delle risposte affettive delle scimmie neonate nei confronti di madri articificiali. Furono costruite, dunque, delle “madri surrogate”, costituite da un blocco di legno, sormontato da una testa antropomorfa, ricoperto di gomma spugnosa e avvolto in un panno di cotone spugnoso morbido con una lampadina sul retro a irradiare calore. Una protuberanza sul petto agiva da succedaneo del seno. In alternativa, il corpo poteva essere composto da una rete metallica, che rendeva più duro il contatto con la madre artificiale.
Harlow costituì vari gruppi sperimentali e di controllo. In alcune situazioni, la madre “dura”, a differenza di quella “morbida”, era dotata di un “seno” da cui i piccoli potevano trarre alimento. In altre, la situazione era opposta. A volte, entrambe erano dotate di “seno”, altre volte nessuna delle due.
In questo modo, misurando il tempo trascorso dai piccoli con ciascuna delle madri surrogate, Harlow scoprì che, indipendentemente da dove fosse collocata la fonte di nutrimento, il piccolo passava gran parte del suo tempo con la madre “morbida”. In altre parole, la gratificazione principale non era dovuta all’allattamento, ma al contatto corporeo. Harlow concluse che la funzione principale dell’allattamento in quanto variabile affettiva è quella di assicurare contatti corporei frequenti e intimi tra l’infante e la madre. In altre parole, la scimmia e l’uomo non vivono di solo latte, ma hanno bisogno di affetto. La funzione rassicurante della madre “morbida” emerse anche dal fatto che i piccoli di reso si abbarbicavano a questa, non alla madre metallica, quando erano esposti a stimoli paurosi.
Hralow riuscì a dimostrare, dunque, che l’affetto non è un impulso secondario e trascurabile, ma una dimensione centrale nell’evoluzione degli esseri viventi. Più o meno nello stesso periodo, altri autori giunsero alle medesime conclusioni. Ricordiamo René Spitz (1887-1974), il quale, nei suoi studi sui bambini deprivati di stimoli, elaborò la teoria della “depressione anaclitica” e descrisse i comportamenti disfunzionali dei bambini che vengono separati dalla persona che si prendeva cura di loro. Ricordiamo anche John Bowlby (1907-1990) e i suoi studi sul legame madre-bambino.
Nonostante la loro importanza scientifica, gli esperimenti di Harlow risentono, tuttavia, di limiti etici che renderebbero oggi impossibile la loro esecuzione. L’isolamento precoce inflitto ai piccoli di reso per periodi lunghi anche anni provocò in essi comportamenti anomali come sguardi nel vuoto, stereotipie, automutilazioni. In non pochi casi, alcune scimmie morirono per anoressia emotiva; altre ebbero conseguenze devastanti già nel breve periodo. Secondo alcuni studiosi, le reazioni pubbliche agli esperimenti di Harlow stimolarono la crescita della sensibilità animalista negli Stati Uniti. Paradossalmente, lo stesso Harlow riconobbe che «nella maggior parte dei casi gli esperimenti non meritano di essere fatti, e i dati ottenuti non meritano di essere pubblicati» (H.F. Harlow, Journal of Comparative and Physiological Psychology, 1962). Come dire: uno spreco di vite animali per conclusioni che avrebbero potuto essere tratte con poco.
Harlow difese sempre le sue ricerche dalle accuse di crudeltà. Del resto, a quei tempi, i codici etici in psicologia non esistevano ed è facile disapprovare la sua condotta a distanza di tempo. Come è facile criticarlo per aver dimostrato l’ovvio, ossia che gli esseri umani hanno bisogno di calore e affetto fin dalla nascita. Psicologi e sociologi studiano spesso l’ovvio. A volte, ne confermano l’ovvietà; altre volte ne mostrano l’infondatezza. Per Harlow le sue scoperte dimostravano i limiti dell’approccio comportamentista e psicoanalitico dominanti: le persone non erano tutte “rinforzi e pulsioni sessuali”. Esiste ben altro. E grazie, fra l’altro, a Harlow lo sappiamo.
Restano le immagini e i video desolanti e commoventi dei piccoli macachi reso alle prese con le loro madri artificiali. Immagini che, credo, prevarranno nella nostra mente più di qualsiasi possibile utilità scientifica potremo attribuire all’attività di Harry Harlow.
Riferimento: Harlow, H. F., 1958, “The nature of love”, American Psychologist, vol. 13, n. 12, pp. 673–685.