C’è qualcosa di equivoco e perturbante nel politically correct: qualcosa che affascina e rende perplessi, coinvolge e allontana.
V’è innanzitutto la questione del linguaggio inclusivo. Sono convinto che il linguaggio abbia un ruolo importante nel progresso della società. Dire “gay” non è la stessa cosa che dire “frocio”. Sebbene entrambi i termini vengano adoperati per designare una persona omosessuale, il secondo trascina con sé una serie di connotazioni negative che aggiungono alla mera descrizione di un orientamento sessuale, una condanna dello stesso in quanto disgustoso, inferiore, patologico ecc. E se uso “gay” invece di “frocio” evito tali connotazioni e parlo una lingua diversa, inclusiva appunto.
Un esempio simile riguarda l’uso di “persona disabile” al posto di “storpio” o “handicappato”. Il primo termine conferisce rispetto e dignità; il secondo inferiorizza e umilia; il terzo offende. Ma – e qui sta l’ambiguità della faccenda – “handicappato” aveva inizialmente buone intenzioni, per così dire. È una parola nata per designare in maniera neutra che, con il tempo, ha assunto una connotazione ormai inaccettabile (anche se sopravvive perfino in alcuni testi normativi, a partire dalla Legge 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”). Stessa sorte è capitata a “Down”, abbreviazione di “sindrome di Down”, originariamente descrizione neutra di “mongolismo” e oggi adoperata, talvolta, in senso offensivo.
C’è poi la questione di “cieco”, inizialmente vituperato come brutale e soppiantato da “non vedente” per poi tornare alla carica e sostituire quest’ultimo, accusato di indicare negando la condizione opposta, come fanno tutte le litoti.
Insomma, quella del linguaggio inclusivo è una faccenda complicata, non facilmente riducibile a una lista di proscrizione abbinata a una lista di termini preferiti. Anche perché le liste cambiano con il tempo e ciò che è considerato accettabile oggi, potrebbe non esserlo domani.
Prendiamo, ad esempio, l’espressione LBGTQ+. Attualmente è considerata “in”, ma siamo sicuri che sia preferibile essere definiti da un acronimo, peraltro così involuto come LBGTQ+?
Alcune soluzioni inclusive sembrano, poi, peggiori del problema. Affiancare o sostituire history con herstory è più inclusivo o più ridicolo? Humankind invece di mankind è davvero un passo in avanti?
Il rischio, paventato fra gli altri dalla scrittrice Doris Lessing (1919-2013), autrice di Language and the Lunatic Fringe (1992), qui da me tradotto, è che il politicamente corretto finisca con l’imporre una forma di conformismo linguistico rispetto al quale ogni altra scelta linguistica appare deviante, riprovevole, sanzionabile; una sorta di lingua unica, precorritrice di un pensiero unico, strumento di un neopuritanesimo di maniera, ma dalle conseguenze potenzialmente devastanti per chi non vi aderisce.
E poi siamo sicuri che ricorrere ad espressioni eufemistiche – celebre il caso di “spazzino” sostituito da “operatore ecologico” – contribuisca davvero a modificare la realtà delle cose? Se, invece, servisse solo a celarla sotto una coltre benpensante? Se rimpiazziamo “poveri” con “persone a basso reddito” non corriamo il rischio di nascondere le cause sociali della povertà e i rapporti di classe reali, mascherandoli dietro una frase anodina? Se ci limitiamo a surrogare “barbone” con “senzatetto” risolviamo il problema della mancanza di alloggi per tutti? Come nascondere la polvere sotto un tappeto per non vederla.
La impronunciabile schwa (“ə”), la tanto celebrata vocale neutra che dovrebbe riequilibrare i rapporti di genere nella lingua italiana è più utile o più patetica?
Non concordo con chi parla di “dittatura del politicamente corretto”, spesso con l’intenzione di reintrodurre termini a cui è semplicemente avvezzo per tradizione. O con chi sostiene che “non si può dire più niente” perché si vede censurato quando pronuncia “negro” al posto di “nero”.
Il rischio reale è che il tutto, però, sia un’operazione di maquillage verbale che serve a illudere di cambiare le cose, imponendo un lessico monolitico e intransigente, finendo solo con il distrarre e celare retoricamente i problemi sociali.
Insomma, il politicamente corretto come “narcotico culturale”, utile per dare l’impressione di cambiare le cose senza farlo davvero.