È vero che la pena di morte ha un effetto deterrente nel senso che scoraggia gli individui dal commettere i reati per i quali essa è prevista? Questa domanda ha suscitato nel tempo risposte estremamente contrastanti tanto che oggi nessuno può sostenere di aver dimostrato una volta per sempre che tale effetto ci sia o no. Eppure, non è difficile imbattersi in articoli giornalistici o in opinioni di presunti esperti secondo i quali l’effetto deterrente della pena di morte sarebbe stato inconfutabilmente dimostrato o contraddetto. Un problema ineluttabile è che è praticamente impossibile organizzare una strategia metodologica priva di pecche. Lo ricorda, fra gli altri, il celebre psicologo americano Albert Bandura nel libro Disimpegno morale, recentemente (2017) pubblicato dalla Erickson di Trento. Seguiamo le sue parole:
I tassi di omicidio sono stati messi a confronto in Stati vicini con e senza la pena capitale, come l’Illinois, che a un certo punto ha imposto la pena di morte, e il Michigan, che non lo ha fatto. La validità di questo metodo dipende dal grado di corrispondenza fra gli Stati pro-esecuzione e quelli anti-esecuzione rispetto ai fattori che influenzano i tassi di omicidio. Un secondo approccio si basa su analisi di serie temporali. Le società istituiscono, aboliscono e reintroducono la pena di morte per delitti capitali. I dati delle serie temporali vengono analizzati per stabilire se l’adozione della pena di morte riduca i tassi di omicidio e se la sua abolizione sia accompagnata da un aumento di omicidi. Tuttavia, l’interpretazione dei cambiamenti di tassi di omicidio nel tempo è complicata dal fatto che al tempo stesso cambiano numerosi fattori sociali che hanno ripercussioni sugli omicidi e ciò rende difficile cogliere separatamente gli effetti indipendenti di una politica basata sulla pena di morte nella società. È inoltre necessario confrontare i cambiamenti nei tassi di omicidio durante l’adozione o l’abolizione della pena di morte con la traiettoria di cambiamento nei crimini non punibili con la morte, e tale paragone permette di controllare i cambiamenti sociali che modificano la traiettoria dei tassi di delitti nel suo insieme.
Un altro approccio cerca di stabilire se le esecuzioni rese pubbliche scoraggino gli omicidi, per lo meno nel breve termine. Tuttavia, le esecuzioni non vengono pubblicizzate in modi che forniscano promemoria vividi tali da risultare freni cognitivi per la condotta violenta. La società contemporanea vuole instillare l’idea della morte come influenza contenitiva ma nasconde le esecuzioni dalla pubblica vista. In passato, si parlava delle esecuzioni sulla stampa e gli oppositori della pena capitale tenevano veglie di protesta di fronte ai luoghi in cui sarebbero avvenute. Oggi, però, salvo che in rari casi, non si parla delle esecuzioni. Perché ciò avvenga, deve verificarsi un’uccisione di massa particolarmente incisiva e ampiamente discussa e quindi, senza la consapevolezza delle esecuzioni occasionali che avvengono in Stati distanti e con la scarsa pubblicizzazione di quelle che avvengono nelle loro giurisdizioni, molte persone potrebbero persino non sapere se lo Stato in cui vivono prevede la pena di morte e con quanto rigore essa trovi applicazione.
La verifica delle relazioni causali nel comportamento umano è complicata dalla molteplicità dei possibili fattori causali. A complicare le cose ulteriormente, molti fattori sono correlati l’uno con l’altro in qualche misura […] (pp. 337-338).
Alla luce di queste osservazioni, è necessario assumere un atteggiamento critico nei confronti di quanti, periodicamente, vorrebbero farci credere che “le ultime ricerche dimostrano senza ombra di dubbio l’effetto deterrente della pena di morte”. Da un punto di vista scientifico, tale effetto è praticamente indimostrabile.
Di questo e altri miti discuto nel mio 101 falsi miti sulla criminalità, pubblicato da Stampa Alternativa.