L’opinione pubblica, veicolata e creata dai mass media, può incidere sull’operato dei giudici? Il “sentimento popolare” può indurre valutazioni di fatti giudiziari che potrebbero essere diverse, se la “gente” non avesse esercitato alcuna pressione sugli organi giudicanti? Negli ultimi anni, una serie di episodi ci porta a ritenere che la risposta debba essere senz’altro affermativa.
Nel 2010, la procura dell’Aquila formulò l’accusa di omicidio colposo a carico di alcuni membri della Commissione Grandi Rischi che, il 31 marzo 2009, 6 giorni prima del terremoto che devastò L’Aquila, avevano tenuto una riunione nel capoluogo abruzzese, diffondendo, secondo la procura stessa, ottimismo e false rassicurazioni anche attraverso i messaggi di tecnici e amministratori
In quell’occasione, il procuratore capo Alfredo Rossini commentò candidamente: «Si tratta di un filone molto importante, che è stato portato a conclusione in maniera che gli indagati possano portare avanti le loro difese con serenità e con tutto il tempo necessario. Speriamo di arrivare ad un risultato conforme a quello che la gente si aspetta. Questo è un lavoro serio».
Il dipartimento della Protezione Civile obiettò: «Davvero non si comprende quale sia l’obiettivo della magistratura aquilana. Non può infatti che auspicarsi che l’operato della magistratura inquirente non sia diretto, come invece afferma il procuratore capo, “ad un risultato conforme a ciò che la gente si aspetta”». E questo perché così facendo «si arriverebbe all’assurdo che la giustizia non persegue l’applicazione delle norme ma gli umori e i desideri di una parte della popolazione, seppur colpita da lutti e sofferenze enormi».
Nel 2012, il “sentimento popolare”, ciò che la “gente si aspetta”, determinò la condanna di sette persone a vari anni di carcere per omicidio colposo, per avere causato la morte di alcune delle persone rimaste uccise durante il terremoto del 2009. Pena poi annullata per tutti gli imputati, tranne uno, dalla Corte di Appello prima e dalla Corte di Cassazione poi (Simonetti, L., 2018, La scienza in tribunale. Dai vaccini agli Ogm, da Di Bella al Terremoto dell’Aquila: una storia italiana di orrori legali e giudiziari, Fandango, Roma, p. 14).
L’episodio di L’Aquila non è l’unico caso in cui il “sentimento popolare” ha influenzato i giudici in maniera decisiva e dichiarata.
Nel 2006, nella sentenza della CAF (Commissione di Appello federale) della FIGC che condannò la Juventus alla retrocessione in Serie B con 17 punti di penalizzazione, la revoca dello scudetto 2004-2005, la non assegnazione dello scudetto 2005-2006, 120.000 euro di multa e tre giornate di squalifica del proprio campo, il “sentimento popolare” la fece da padrone. Nel dispositivo della CAF, era dato leggere che «nella valutazione del materiale probatorio la Commissione si limiterà ad indicare quegli elementi di sicura valenza, che non si prestano ad interpretazioni equivoche, perché già solo dall’analisi di taluni fatti incontrovertibili emerge a chiare lettere ciò che era nella opinione di tutti coloro che gravitavano nel mondo del calcio» (pag. 79).
Sempre a proposito di Calciopoli, come fu definita la vicenda giudiziaria che portò alla retrocessione della Juventus in serie B, Mario Serio, uno dei cinque membri della Corte Federale, in data 28 luglio 2006, dichiarò a «La Repubblica»: «Abbiamo cercato di interpretare un sentimento collettivo, abbiamo ascoltato la gente comune e provato a metterci sulla lunghezza d’onda». Ancora una volta, l’opinione pubblica, intesa come un moloch che decide da che parte vira la giustizia, come se questa non fosse regolata dai fatti, ma dall’umore della piazza.
Sembra di andare indietro nel tempo, nel XVII secolo, alla Storia della colonna infame di manzoniana memoria in cui, a causa di una “donnicciola” che si trovava “per disgrazia” alla finestra, alcuni uomini furono condannati in quanto “untori” della peste, finendo poi torturati e uccisi per volere di alcuni magistrati, molto sensibili al “sentimento popolare”. Vox populi, vox dei.
Solo che la giustizia non dovrebbe dipendere dall’umore popolare, ma da un’attenta e imparziale analisi dei fatti, corroborata da ogni possibile mezzo di prova, criticamente esaminato. Il fatto sconvolgente è che giudici e magistrati non hanno remore nel dichiarare in pubblico la loro subalternità al volere della gente, la loro genuflessione all’irrazionalità della folla, portata a giudicare i fatti più di pancia che di testa. Insomma, una temperie medievale inquietante, riconosciuta e conclamata, che non può non condurre dritto filato all’arbitrio più assoluto.
Ma il nostro non doveva essere il secolo della razionalità sovrana? Evidentemente no.