Gilbert Chesterton e i lombrosiani

Che ti aspettavi, un mostro? Non riesci a capacitarti, vero? Non ho giustificazioni da offrire. Non ho un perché che ti farebbe dormire sogni tranquilli. Non ho subito traumi infantili. Non mi hanno molestato da piccolo. Mamma non ha abusato di me. Papà non mi ha violentato. Sono fatto così e basta. Non c’è niente da spiegare.

Sono le parole con cui il torturatore sadico Machine, all’anagrafe George Anthony Higgins, un uomo con pochi capelli e gli occhiali, che vive ancora con la madre, si presenta allo sconcertato Tom Welles, interpretato da Nicolas Cage, dopo essersi tolto la maschera, nel film 8mm. Delitto a luci rosse (1999) diretto da Joel Schumacher e interpretato dallo stesso Cage e da Joaquin Phoenix.

Le parole del “mostro” dall’aspetto ordinario, dalla vita del tutto normale, se non mediocre, sconvolgono Wells, il quale crede evidentemente che dietro alla efferata crudeltà dimostrata da George per tutta la durata della pellicola, si celi un essere dalle sembianze teratologiche, straordinariamente demoniache, rimanendo deluso dal suo volto spiazzante di miope disarmato. Un caso di assoluta banalità del male, potremmo chiosare.

Le parole di Machine sconcerterebbero anche tanti criminologi passati e presenti, convinti dell’esistenza di una corrispondenza “scientifica” tra caratteristiche fisiche, biologiche, anatomiche e tratti di personalità criminali. Sconvolgerebbero, in particolare, tanti lombrosiani e neolombrosiani che di tale corrispondenza hanno fatto il proprio mantra professionale.

Il problema è che, al di là delle continue falsificazioni che le teorie biologiche della criminalità hanno ricevuto e continuano a ricevere, una delle fallacie principali dei dogmi su cui esse si reggono sta nel fatto che pretendono di ricavare informazioni sulla moralità delle persone dalla conformazione del cranio o da altre peculiarità fisiche, senza però sapere che cosa debba intendersi per moralità. A meno, ovviamente, di non far coincidere la moralità con l’adesione più bovina a una concezione convenzionale e rigida della stessa. Ad esempio, a una concezione piccolo borghese secondo cui chiunque non fosse sposato con figli e non ambisse a un “posto fisso” e a una pensione a fine carriera dovrebbe essere tacciato di anormalità e mostrare “segni” della stessa in una qualche caratteristica corporea.

Non a caso le “gallerie d’arte” dei lombrosiani sono zeppe di ritratti di indigenti, ladri, immigrati, assassini, ribelli, rivoluzionari, artisti, spostati e altri devianti su cui “esplodono” le proprie tesi. Spesso con il tipico meccanismo della “profezia retrospettiva” che contraddistingue una certa grafologia quando attribuisce determinate caratteristiche morali a determinati tratti di penna di cui già si conosce l’autore. Allo stesso modo, lombrosiani e frenologi accordano patenti di immoralità o delinquenza a crani e bitorzoli sulla base della conoscenza del “proprietario” di quelle forme o dell’appartenenza socio-economico-culturale di quello, preventivamente valutata in forza di precise tassonomie elaborate in precedenza, ma olezzanti di pregiudizi grossolani, percepibili a miglia di distanza.

È questo l’argomento principale che lo scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) avanza in un breve articolo dal titolo A Criminal Head, tratto dalla raccolta Alarms and Discursions (1911), che qui trovate nella mia traduzione. Assestando un colpo mortale alla criminologia del suo tempo, Chesterton individua nella mancanza di conoscenza morale il suo più grosso limite: non si può dire che una mandibola prognata o una “fossetta occipitale mediana” (qualsiasi cosa costituisca questo celebre oggetto culturale lombrosiano) siano senz’altro rivelatrici di una tendenza amorale o all’umore cupo, se non si ha un’idea di che cosa debba intendersi per amoralità o per infelicità. O se si giudica l’amoralità e l’umore tetro solo in base a definizioni angustamente prestabilite. Ad esempio, non si può accusare una persona senza fissa dimora di anormalità solo perché il possedere una casa in una società borghese è la normalità. Fra l’altro, si dovrebbe spiegare perché in una società borghese che feticizza il diritto alla casa, alcune persone sono prive di tale diritto. E un’analisi approfondita rimanderebbe alle responsabilità della stessa società borghese, non in grado di garantire il diritto in questione a tutti. Ma questa è un’altra storia.

Se è vero che tutti coloro che eccellono nella vita mostrano tratti di ossessività – basti pensare al tempo e alle energie assolutamente sproporzionate rispetto alla norma che le grandi personalità di tutti i tempi dedicano alle attività in cui primeggiano, dallo sport alla politica, dall’arte alla scrittura, dalla musica alla scienza – non si può qualificare tale tratto in senso patologico per poi esaltare la normalità dei mediocri che si allineano ai canoni dell’ordinarietà imposti dalla società in cui vivono. Chesterton fa l’esempio del (presunto) cranio di Robespierre, la cui conformazione suscita in un lombrosiano da operetta il giudizio di “carenza di impulsi etici”, quando, semmai, a Robespierre andrebbe rimproverato un eccesso di moralità, se non moralismo! È come riprovare la condotta ostinata di Jannik Sinner o di Cristiano Ronaldo, noti per il tempo e le forze che dedicano maniacalmente alle attività sportive in cui dominano, confrontandola con quella dell’impiegato comunale, elevato a modello incontrastato di normalità.

La situazione peggiora, se possibile, quando una determinata caratteristica fisica viene attribuita a un intero gruppo sociale – gli irlandesi, gli italiani, gli americani ecc. – venendo interpretata uniformemente in senso positivo o negativo. In questo caso, trionfa la generalizzazione su base biologica, preludio a forme di razzismo ancora oggi ampiamente diffuse e rinnovate.

Chesterton osserva che il marchio scientifico permanente del tipo criminale, il tratto trasversale che accompagna ogni giudizio negativo dei lombrosiani è la povertà. E, in effetti, i criminologi – con qualche debita eccezione – avvertono una profonda resistenza ad applicare le loro categorie ai potenti, ai milionari, a quelli che detengono il potere, soprattutto qualora ancora in vita. Se il deviante povero può facilmente essere anatomizzato, misurato, valutato, il deviante ricco difficilmente si presterebbe a tale forma di umiliazione fisica e morale. E, se anche lo facesse, il criminologo di turno saprebbe come addebitare a eccentricità ed eccezioni di vario genere comportamenti che, nel caso dei rubagalline, sarebbero da imputare senz’altro a una precisa caratteristica fisica.

Certo, oggi la criminologia è tutt’altra cosa rispetto ai tempi di Chesterton. I criminologi odierni fanno strame delle teorie di Lombroso & co., ricordandone il nome solo nei manuali di storia della disciplina. Non manca, però, di tanto in tanto, chi si dice convinto di aver trovato il “gene del male”, il “cromosoma della delinquenza”, l’“ormone del truffatore” o la “deficienza endocrinologica dello stupratore”, dimenticando che gli aspetti biologici o fisiologici hanno un carattere aspecifico, indifferenziato, e, in quanto tale, costituiscono la base per l’attività umana in genere, ma non la base per condotte umane specifiche, come quelle criminali.

In altre parole, le teste di imbecilli abbondano anche nel nostro tempo. Proprio come ai tempi di Gilbert Keith Chesterton.

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