In un mio precedente post, ho discusso le implicazioni del concetto di affluenza, inteso come “l’incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni a causa della propria condizione economicamente privilegiata” e di come esso sia adoperato da alcuni avvocati nelle aule giudiziarie americane per attenuare le imputazioni di colpevolezza dei propri assistiti.
Tra le strategie difensive “creative” adoperate in America c’è anche quella che fa riferimento al concetto di “gay panic” (altrimenti definito “homosexual advance defence”, “homosexual panic defence” o “homosexual rage defence”), impiegato soprattutto in situazioni di omicidio in cui la vittima sia “chiaramente” omosessuale. La ratio sottostante è che chi ha commesso l’omicidio lo ha fatto in risposta a una avance omosessuale percepita come una minaccia disgustosa e oltraggiosa alla propria identità eterosessuale e alla propria reputazione e quindi in una situazione di infermità mentale temporanea determinata dalla grave provocazione subita. Questo argomento legittima l’uso della violenza fisica in quanto, come suggerisce Cirus Rinaldi nel suo recente Maschilità, devianze crimine (Meltemi, 2018), «nel momento in cui un uomo eterosessuale diventa oggetto di un’avance omosessuale, l’ordine e la gerarchia di genere vengono ribaltati a tal punto che, per poterli ristabilire, il maschio “offeso” è tenuto a rifiutare l’avance in modo violento – e talora con esiti letali – per rivendicare la propria maschilità incrinata attraverso modalità socialmente accettabili» (p. 129). L’omicidio diventa così occasione per esprimere e confermare la propria identità maschile eterosessuale e respingere con disprezzo ogni possibile collegamento con comportamenti non maschili o omosessuali. L’assunto di fondo è che l’eterosessualità maschile sia una condizione “naturale” che viene violata e oltraggiata dalle innaturali proposte omosessuali. La difesa della “normalità” dell’eterosessualità diventa così pretesto della violenza omicidaria e contribuisce a ribadire la “naturalità” dell’agire eterosessuale vs. quello omosessuale, relegato in questo modo nel dominio del deviante e del disgustoso.
Cirus Rinaldi afferma che, in taluni casi, la strategia del “gay panic” ha portato effettivamente alla inflizione di condanne più miti, anche se nessuno è stato rimesso in libertà invocando la “homosexual advance defence”. Non è difficile capire i motivi dello status precario di questo argomento. Portato alle estreme conseguenze, chiunque potrebbe uccidere un altro uomo invocando un oltraggio omosessuale subito per vedersi ridotta la pena. La situazione non è molto dissimile dal vecchio “delitto d’onore” che permetteva all’uomo italico di vedersi ridotta la pena in caso di omicidio della moglie fedifraga. Alla moglie fedifraga si è sostituito l’omosessuale tentatore e all’onore calpestato l’oltraggio omosessuale. È probabile – o almeno mi auguro – che l’argomento del “gay panic” non prenda piede sia per la sua insussistenza sia per il rischio di alimentare l’omofobia tra le persone sia per gli abusi che inevitabilmente genererebbe sia perché in controtendenza rispetto ai diversi modi di intendere la sessualità maschile che si stanno diffondendo nella nostra era e che rimandano a una idea di identità sessuale maschile meno monolitica e più complessa di quella a cui la tradizione ci ha abituato